Parola, suono, dialetti, poesia – Gian Mario Villalta

Al suggestivo invito di Carlo Selan ero tentato di rispondere con una pagina “da poeta”, raccontando perché ho scritto in dialetto e in quale misura e per quali ragioni ho continuato a farlo, anche se più raramente. Però poi, iniziando a scrivere, mi sono reso conto che tenevo di più a un paio di argomenti generali, che potevano fare da sfondo a un ragionamento condiviso e a un eventuale confronto. La domanda è diventata quindi, per me, che cosa ne è dei dialetti oggi, e per conseguenza in quale relazione con la poesia possano essere considerati.

Nel corso dei decenni ’70 e ’80 del secolo passato si paventava la morte dei dialetti e delle lingue minori, al punto che allarmi e legiferazioni si sono intrecciati, in un momento di grande intensità, con le riflessioni e le pratiche poetiche, determinando forse l’ultima occasione di dibattito “comune” della poesia italiana.

Quello che sfuggiva, e che non è poi diventato motivo di confronto, è che stava accadendo qualcosa di diverso. Non erano le lingue minori e i dialetti a morire, ma il loro habitat, il mondo dentro il quale potevano vivere, fatto di pratiche, oggetti, credenze, mentalità. Era il mondo delle campagne e dei borghi a trovarsi trasformato nella realtà della produzione industriale e dei consumi: per il contadino la terra diventa allora quello che per il produttore di lavatrici è lamiera, plastica, cavi elettrici. Solo più tardi, con il nuovo secolo, l’immagine delle campagne e dei borghi si trasformerà in elegia enogastronomica e uichendaria, elezione dei luoghi a garanzia di un’esitenza d.o.c. e i.g.p.

È accaduto, nel frattempo – non ho riscontrato avvisi in questi termini – che i dialetti sono migrati nella lingua italiana, sistemandosi come hanno potuto. Hanno lasciato il loro habitat, il loro mondo, e sono entrati a far parte di questo altro ecosistema globale che tutti oggi condividamo, lasciando quello che non potevano portarsi dietro e adattandosi a una realtà dove hanno trovato comunque modo di sistemarsi alla meglio… e a volte anche un lavoro: l’intonazione, per esempio, e poi il supporto di molte espressioni idiomatiche, cioè mantenere un sostrato linguistico attivo; la funzione di preservare un collante familiare, parentale, di piccoli gruppi; ma poi anche nella comunicazione e nella produzione agroalimentare, nella ristorazione e nell’attività vinicola. Un po’ nell’ideologia politica. E nella comicità, che spesso offre loro un impiego.

Insomma, una migrazione nel tempo, e non nello spazio; ma i geografi più avveduti ci insegnano che, all’avvento di molteplici trasformazioni, uno spazio terrestre, anche se di immutato perimetro, non è più lo stesso.

Forse valeva la pena di segnalare quanto sopra, perché se torniamo al secolo scorso e ci confrontiamo con i risultati della poesia dialettale e delle lingue minori, e poi con le testimonianze e le meditazioni proposte dai poeti, alcuni di questi tra i grandissimi, è utile tenerne conto.

Da una parte, a queso punto, dialetto e lingue minori in poesia saranno da riconoscere oggi per quello che sono: residuo, sottoinsieme o parte non isolabile di un insieme più vasto e coesistente; e però anche materia presente di un tempo che persiste, e di una diversa appartenenza agli altri, alla geografia, all’esistenza; e, ancora, vicinanza a una spontaneità espressiva che accomuna i parlanti nel segno di un’ipotesi – soltanto un’ipotesi – del barbaglio, del luccichìo di una lingua che viene da prima del costituirsi di un sistema formativo e informativo entro il quale il bambino è incanalato non appena accede ai primi gradi dell’apprendimento.

Certo però che non sono poche le falde dove la lingua scorre in antiche temporalità, sotterranei fiumi che riuniscono diverse acque e mai mancanti polle di risorgiva, dove limpido accade l’emergere del fatto linguistico, e fa sorgere al dire la proprietà/unicità di un evento. Quell’evento che concordiamo di riconoscere nella poesia.

Lingue minori e dialetti, uniti in un comune destino – e perciò d’ora in poi dirò solo “dialetto” – sono ancora i luoghi di una possibile meditazione sul “suono del pensiero”, per usare una felice espressione di Andrea Moro, ovvero sull’origine inafferrabile del congiungersi dell’esperienza individuale (corpo, mente, coscienza) con il più vasto ecosistema del senso che a questa esperienza porta la lingua.

Proprio con il neurolinguista Andrea Moro andiamo a puntare verso due acquisizioni che dovrebbero fornirci un primo orientamento: 1) parlare una lingua è per un essere umano l’evento che consegue a un insieme di fenomeni complessi, tali da legare lo sviluppo della competenza linguistica a quello della memoria di lungo termine e alla stessa costituizione dell’io capace di esprimersi e comunicare; 2) Non vi è lingua, parola o espressione che non sia nella sua origine già “suono”, evento quindi mentale e psichico articolato alla percezione e al corpo mediante qualcosa che è già “traccia” inscritta nel tempo del suo accadere.

Cercherò di chiarire quanto appena scritto.

Cominciamo con il punto 1) – Lo aveva notato già Dante: apprendiamo la lingua “materna” gratis, mentre poi acquisire l’uso di altre ci costa fatica. Fattori genetici evolutivi fanno sì che nel corso del primo sviluppo l’infans, attraverso la fase della lallazione acceda ai suoni e dai suoni all’individuazione delle vaste funzioni della parola. A poco a poco, riproducendo, sperimentando, attraverso rinforzi e delusioni, l’infans diventa fans – il parlante – competente quanto basta per iniziare la seconda fase di arricchimento e riconoscimento dei relativi contesti di differenziazione espressiva. È nel corso di questo processo che si sviluppa quella memoria a lungo termine che permette di costituire un io attraverso la conservazione dell’esperienza e il suo riferimento a un “sé”. Quel “sé” che la grammatica esprime nella forma dell’“io”. Solo dopo i due anni e intorno ai tre, a completamento della prima maturazione linguistica, si ha la conservazione della memoria, non prima. Chi dice di ricordarsi qualcosa di precedente attinge a fake mnemonici, prodotti da interferenze interne, non rarissimi anche nella memoria adulta. Altra notazione significativa, a sigillo del carattere specifico di questi eventi: passato il periodo dello sviluppo, nessun soggetto perviene più a una piena competenza linguistica.

Dove sta il poetico? Che cosa c’è di interessante per la poesia?

Tutto ciò ci dice, innanzi tutto, che la lingua è eredità. Accediamo a un mondo di relazione e formiamo un “sé” in una lingua che è del presente e del passato di altri, in un universo di pensieri, oggetti, sentimenti che sono di altri. Inoltre, c’è un legame relazionale, un processo che è interno alla pratica della cura parentale, che fa sì che impariamo la lingua immersi in una reciprocità. Nel corso del nostro accedere al parlare, sviluppiamo per un certo periodo una “lingua a due”, con uno o più altri soggetti, che costituisce una specie di paradiso espressivo dove la continua circolazione dal suono al senso dell’espressione verbale passa attraverso il corpo, la pulizia, il nutrimento, il sonno. L’infans che mette alla prova le sue facoltà articolatorie mediante la lallazione è ancora, in un certo senso, legato con un fantasma di cordone ombelicale al parlante che lo accudisce, e non distingue la grammatica dal gesto, il sospiro dal lessico.

È quella esultanza del dire, quella libertà assoluta del laudare l’esistenza e il proprio stesso essere al mondo, che è allo stesso tempo collaudare le diverse relazioni tra sé e il mondo. Qui ripercorro le orme di alcune meditazioni di Andrea Zanzotto, come farò per tutto questo scritto, senza le citazioni puntuali, che ho prodotto più volte in altri interventi: è proprio Zanzotto a scrivere di un piacere del principio (manipolando il freudiano “principio di piacere”) che proviene dall’organismo vivente e che viene celebrato nella laude/collaudo in quel verso che è proprio dell’animale uomo. Tutti i viventi comunicano, solo l’uomo parla. E l’articolarsi del suono nella voce è quella esultanza (laude) e quella messa alla prova di possibilità e di limiti (collaudo).

Dobbiamo soffermarci ancora un poco: a mano a mano che l’infans diventa a sua volta un parlante, questa dimensione paradisiaca, soddisfazione del corpo-psiche nell’espressione di sé, accede alla normatività della lingua e alle risposte che le relazioni di mondo impongono, fino a fare propri i limiti entro i quali la lingua stringe la possibilità di un rapporto efficace di significato e di comunicazione. E qui fa esperienza di un altro fondamentale evento: la parola “manca”. Non c’è espressione, non c’è lessico, nella lingua “comune”, che completi il cerchio che chiude il desiderio in un senso compiuto. Certo, la maggior parte delle volte il veicolo linguistico si rivela efficace e utile. Sempe quando ci si può affidare alle garanzie di una già “collaudata” comunicazione sociale. Ma il vocabolario non ci aiuta, la grammatica non dà forma, altre volte, a qualcosa che il sentire vorrebbe esprimere, ci “manca” la parola e allo stesso tempo siamo sulla soglia di qualcos’altro, una lingua più vera, forse edenica, che farebbe corrispondere intero il corpo e la psiche, il percepire e l’espressione (quella lingua che abbiamo inventato, sognato, parlato forse, prima di apprendere pienamente la lingua).

Fermiamoci qui, per il momento: all’esperienza che ci porta sulla soglia della poesia – la parola che “manca” – corrisponde nella nostra mente (forse nell’intero corpo) il fantasma di qualcosa che abbiamo vissuto, una pienezza del dire, una lingua paradisiaca che, però, non si sa più, come se un giorno l’avessimo parlata e poi in seguito dimenticata. Ci torneremo.

Passiamo al punto 2). Andrea Moro ha accertato in via sperimentale che alla lettura soltanto “mentale” di un testo (o all’eventuale sua silenziosa rievocazione mnemonica) e alla pronuncia a voce alta della stessa sequenza di parole, corrisponde una pari mobilitazione delle medesime reti neuronali. Ciò significa che la parola è fin dall’origine suono, e quindi scansione, ritmo. Significa che fin dall’origine, al suo primo scaturire nella nostra mente, la parola è tempo. È tempo perché ha un suono che stabilisce una sequenza. Ancora: la parola è “scritta” fin dall’origine, per quanto è vero che la scrittura dà un tempo sequenziabile, e quindi una sospensione nel tempo, alla parola. Ciò non significa soltanto che la prosodia non è un abbellimento del dire, ma fin dal suo scaturire movente del suo senso e che, prima ancora della pratica della scrittura, c’è un tempo lunghissimo che ha portato all’alba delle civiltà “storiche”, quando già la differenza tra l’impermanenza del discorso e il lavoro della composizione verbale era praticata. La tecnica formulare, rilevata in molte composizioni ereditate da culture fiorite prima dell’acquisizione della scrittura, conferma quanto mi interessa qui evidenziare: la poesia ha sempre lavorato al vivo della voce e allo stesso tempo alla “composizione” del discorso entro una forma che fosse in grado di produrre un’altra voce, più vicina a quel celebrare e collaudare che esalta e accomuna la relazione tra sé, gli altri, il mondo. Una voce che è più propria quanto più è comune a quella di chi la ascolta e, ascoltandola, con essa risuona nella mente e nel corpo, nella psiche.

Mi avvio a chiudere. Esistiamo nella lingua, e in essa facciamo esperienza di una duplicità: una dimensione comunicativa, di fungibilità e efficacia pratica, e un’altra dimensione, esistenziale, che riguarda la memoria e il desiderio. Il dialetto si fa “figura” di questa duplicità, poiché evoca una dimensione che precede la norma linguistica, analoga alla “lingua a due” dell’apprendimento linguistico.

L’“instabilità” dei dialetti, il loro radicamento nella parola viva, a fior di labbra, fa apparire il fantasma di una lingua paradisiaca e ci illude – un po’ gratificandoci – di poterla praticare. Ritroviamo quella dimensione del laudare e collaudare che ci ricompensa del “mancare” sempre più frequente della parola, nel vortice dell’istantanea comunicazione globale attuale. Un “mancare” che appare oggi da doversi colmare con la moltiplicazione della parola e con il suo incremento di volume (“alzare la voce” è il volersi imporre su qualcuno altro mediante un espediente che non ha nulla a che fare con il pensiero e la poesia).

Allo stesso tempo, questa “spontaneità” o “originarietà” del dialetto, è anche il fantasma di un fantasma, residuo di fantasma, migrante dentro insiemi non più ascrivibili a regioni diverse dell’esperienza. Allora, se non perderà di senso scrivere in dialetto, dovrà però trovare una necessità dentro questa attuale dimensione. E chi vorrà farlo non potrà fare a meno, inoltre, di riflettere che in ogni caso, anche in dialetto, c’è una “composizione” che abita la lingua stessa, e che va pensata in relazione al “componimento” da realizzare sulla pagina.

 

Gian Mario Villalta