Per una visione esatta della specie


 

Condivido il pensiero secondo cui, tra gli autori della mia generazione, si noti una più stretta visione di specie, a cui si aggiunge un’attenzione linguistica (o addirittura un gusto) per le parole tipiche del gergo scientifico, soprattutto quelle di derivazione antropologica o sociologica, ma non mancano lemmi provenienti dalle neuroscienze o dall’astrofisica. Non che la poesia sia nuova a questi interscambi, anzi, più ci rifletto più mi sembra che un discorso cronologico sulla poesia italiana debba fare i conti, sempre, con la religione del suo tempo, sia scientifica e immanente o divina e trascendente.

Esiste, credo, una doppia visione: da un lato una certa tradizione di poesia toponomastica (su tutti il primo Magrelli, Ceni e De Angelis) ha contribuito negli anni ad accrescere il gusto per le sfumature esotiche della nomenclatura medica e scientifica, dall’altro, ed è lì che si concentrerà questo discorso, credo si senta il bisogno, da parte degli autori di questa generazione, di ridefinire la specie e il mondo che da lei è esperito.

Mi spiego. La mia generazione ha un fortissimo bisogno di uscire dal canone, di cambiare orizzonte, di staccarsi dalla letteratura precedente, mai, credo, si è fatto a meno dei maestri in modo così massiccio. Non è un caso che ogni volta che mi trovo a parlare con qualche coetaneo della poesia dagli anni ’00 in poi il nume più gettonato, insieme a De Angelis, sia Benedetti, un padre morto, e morto da muto.

Su Benedetti va poi aggiunto che il suo Pitture nere su carta, costituisce anche un viatico importantissimo e riscontrabile nella poetica mia e di amici come Tommaso Di Dio in Verso le stelle glaciali e Riccardo Frolloni in Corpo striato (due titoli emblematici entro il nostro discorso), posto com’è a metà tra una registrazione delle proprie vibrazioni emozionali e un quaderno di antropologia che segna velocemente gli appunti dalla grotta in cui è precipitato il suo proprietario.

C’è bisogno, intendo dire, di esplorare pienamente altri campi del presente. La vita borghese non basta più, nemmeno nelle sue aperture epifaniche, nei suoi riti, nella sua costituzione sociale. Ci interessano maggiormente le mandrie, il rumore dei pianeti nel loro giro, le sensazioni di un drone, come quello che Bernardo Pacini fa pensare in Fly Mode. Un gesto liberatorio che ha bisogno, muovendoci su piattaforme nuove, di un nuovo dizionario, di una nomenclatura diversa.

Quanto incidevano le neuroscienze sulla vita di un uomo del Novecento? Quanto incidono oggi? Quanto era importante conoscere le tratte migratorie attive sul pianeta sessanta anni fa? La guerra era finita, la migrazione anche, e per un periodo era finita in tutti e due i sensi. Oggi è tutto dissolto, filosofie e religioni, sistemi politici e un’ossatura valoriale durata decenni, nel nostro piccolo crolla la grande editoria e gli apparati culturali d’elite. L’unica cosa che rimane in piedi è il grande totem tecnico-scientifico, che si erge sulle rovine. Cosa, se non questo, può spingere verso il vortice di una rivoluzione prossima? Mi sembra che il cambio percettivo e linguistico, sia inevitabile.

Quindi dalla specie si deve parlare, e guardandola davvero in senso etologico e misterico, clinico nella morfologia e ctonio nelle sostanze individuali. Credo che oggi questo sia un lavoro fondamentale. Ciò che mi interessa è naturalmente multiplo e multiforme. Tendenzialmente una immersione nel solco del vivente. Io amo frequentare l’arte violenta. Da Sade al Sartre de Le mosche, da Santa Giovanna dei Macelli di Brecht alle maschere di Olivier de Sagazan, a Houellebecq, a Siti, Tondelli, L’Altrella, Arrivabene e via dicendo.

Credo che questa generazione sia a pieno titolo entrata in tempi violenti e che violenta debba essere l’arte che esperisce, come violento è il mondo animale e il mondo umano della tragedia, fin dalla sua fondazione dionisiaca, dove l’osceno deve manifestarsi, essere raccontato. Credo dunque che l’arte sia racconto puntuale del rimosso. Credo, con Byung-Chul Han, che «l’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male. È da qualche altra parte. È a casa dell’estraneo1». Ma vedo attorno a me un’opera costante di rimozione borghese, di piccole emozioni, di storia personale. Bisogna parlare del mondo, oltre alle piccole scosse che invadono l’io. E il mondo gronda sangue, per questo la cronaca.

La storia degli umani è storia della carne, la propria, quella della preda, la testa del nemico. Prendo poi l’esempio degli indiani, perché credo che sia proprio così: le comunità amerinde sono, con gli aborigeni australiani e con gli indios, una delle poche comunità che non ha modificato il paesaggio e che ha cacciato secondo natura. Sono sapiens non toccati dalla tecnica più becera, quella foraggiata dalla filosofia positivista. Ci sono, con Robert Eisler, due possibilità per gli uomini, seguire il destino di cacciatori – raccoglitori o seguire Cartesio fino ai suoi esiti maggiormente catastrofici. Nel mio testo l’uomo cambia, un particolare di cui in pochi si accorgono, torna tra i boschi. Ritorna silvano.

 
 

1 Byung-Chul Han, La società senza dolore, Torino, Einaudi, 2020, pp. 10-11.

 
In copertina “Le due morti” di Agostino Arrivabene.