In dialogo: Carlo Selan e Marco Giovenale


 

Carlo Selan dialoga con Marco Giovenale.

 
 

CS: Mariangela Guatteri, nel saggio breve Scrittura non assertiva del 2015 (poi ripreso nel volume La cornice e il testo. Pragmatica della non assertività1 di Gian Luca Picconi), scrive:

Pensare a una scrittura non assertiva necessita di un approccio paradossale ed è come stare in relazione con qualcosa che esiste, non esiste ed è indescrivibile. E questa relazione non si riferisce a un oggetto oscuro e inaffrontabile ma, probabilmente, a una condizione di intermittenza, di glitch sensoriale rispetto allo scorrere agitato del real time.

Ogni scrittura asemica, ovvero una scrittura in cui avviene una progressiva separazione del segno rispetto al significato e in cui il classico triangolo semiotico (significato – significante – referente) viene sbilanciato in direzione del solo significante (dunque assenza di significato ma non di senso), potrebbe essere interpretata come un atto che realizza un non – enunciato. Cristiano Caggiula, in un suo scritto dal titolo L’asemic writing (pubblicato all’interno di Asemic writing. Contributi teorici2), cita Maurizio Ferraris che, commentando un passaggio di Levi Stauss in Tristi tropici, scrive così:

la scrittura è precedente del linguaggio non soltanto perché lo precede, d’accordo con l’ipotesi della priorità del gesto, ma anche in quanto, diversamente dal linguaggio, è in grado di registrare prima che di comunicare

Dunque, la scrittura come qualcosa che implica la possibilità di non compiere un enunciato, un atto comunicativo. Si può parlare in qualche modo dell’asemic writing come di scrittura non assertiva (nella misura in cui non sembra essere presente un soggetto – autore che asserisce, che ha una sua postura desumibile dal testo)? La scrittura asemica in che modo incorpora (se lo incorpora) un soggetto – autore ed eventualmente esso che ruolo assume?

Ragionando sull’utilizzo del concetto di glitch3 all’interno dell’asemic writing (anche attraverso le parole di Mariangela Guatteri citate in precedenza), è più giusto dire che esso ribadisce un atto comunicativo non realizzato nei confronti del ricevente (quindi un significato presente in un’enunciazione poi annullata e alterata da una manomissione, da un’interferenza) o che esso si pone come giuntura di materiali di per sé e singolarmente non significanti, ma portatori di nuovo senso ermeneutico nel lettore – fruitore proprio in virtù di questa giuntura, di un trovarsi associati a vicenda? Il glitch va interpretato come frattura – manomissione o come giuntura? Risulta applicabile ai materiali di Glitchasemic quanto afferma Roland Barthes, ovvero che nella scrittura è contenuto anche un aspetto di illeggibilità il quale, fatto proprio da alcuni artisti, serve a nascondere e a preservare4?

 

MG: È stata sempre mia cura, per quanto e come ho potuto, tenere disgiunta l’ipotesi (mai per me categoria critica) della non assertività dal campo dell’asemic writing. Anche perché a mio modo di vedere non è assertivo un testo o un segno (quale che sia) che semplicemente asserisce, bensì un testo o segno che proietta sulla distanza tra sé e il fruitore un asserito/asseverante set di elementi di affabilità e persuasione, e chiavi di ingresso, che tendono non solo a facilitare l’entrata senza attriti della suasione nel lettore, nell’osservatore, ma (forse soprattutto) a rafforzare l’identità di architetto o artifex, insomma la sagoma stagliata e studiatamente quanto falsamente integra, dell’autore. (Che invece è proprio una sagoma, anzi un ritaglio che si sfalda parlando: o – se produce davvero senso all’altezza delle necessità di senso dell’epoca – ha già smesso di essere nel momento in cui i suoi materiali sono davanti allo sguardo del lettore).

Esistono dunque addirittura opere di asemic writing assertive, o che non esiterei un istante a definire tali. Ad esempio i mille casi di kitsch pittorico di chi annega il tratto pseudoalfabetico in un oceano di colorazioni e gorgheggi ottici realmente astratti, o che rimandano a quell’abstract painting pacchiana che fa l’orrore di ogni sala d’attesa che (non) si rispetti.

È certo evidente che – solo nelle sue realizzazioni più riuscite – l’asemic writing si guadagna sul campo una inevitabile medaglia di non assertività. Produce senso-non-senso. Vero è che, tuttavia, mette in moto una macchina di decifrazione che anche se gira a vuoto e sa di girare a vuoto, perché non c’è niente da tradurre, si appoggia a qualcosa di solido: ai capitelli, alle curve, agli archi e grazie e bastoni di una grafia, riferendosi in modo del tutto generico e nebuloso alla possibilità di trovarci dentro un linguaggio (sconosciuto). Lo scrittore di pseudoalfabeti dà un falso appuntamento al lettore: l’asemic writing questo è.

Lo scrittore non assertivo non dà alcun appuntamento, affatto; perché lui stesso non sa dove e quando (di qui l’idea di “ricerca”: il non conoscere, nodale in Amelia Rosselli, per esempio) il suo testo si fermerà e pianterà le tende.

Nel fissare un appuntamento (ancorché falso) sta l’assertività dell’asemic writer, che non a caso è spesso un calligrafo, o un (frequentemente pessimo) pittore astratto o informale.

Forse con queste ultime notille ho risposto anche all’ultimo interrogativo. (E anticipato qualcosa circa la domanda che segue).

Una nota a parte merita invece il glitch: mi piace l’idea di giuntura, ma resto dell’idea che il glitch sia un esempio di interferenza e disturbo radicale. Se l’asemic writing è un’operazione che nasce all’esterno del significato, pur mimandolo; il glitch è un’operazione che in linea di massima non intende prescindere da una mimica effettivamente rispondente a un oggetto o referente decodificabile.

 
 

CS: Riconoscere in sé una non comprensione di una lingua straniera (per esempio, il russo o il cinese) è qualcosa di profondamente diverso rispetto a quanto avviene in una non comprensione di una lingua (ad esempio, un dialetto) che, in virtù di una familiarità di contesto e di una comune appartenenza geografico – culturale, dovrebbe essere nota e partecipante a una propria identità biografica e interiore. Se nel primo caso ci sarà una non comprensione che tendiamo a giustificare e accettare, nel secondo caso si creerà una situazione particolare e straniante, che implica l’attestazione di un mancato accesso a una componente linguistica che dovrebbe essere parte di una nostra identità (qualcosa che allo stesso tempo appartiene ma non appartiene più). Ancora diversa sarà la reazione al fallimento di un atto comunicativo che avviene nella lingua che padroneggiamo nella quotidianità (ad esempio, l’italiano).

Tutto questo diventa interessante per ragionare su diversi tipi di scrittura che tendono a una parziale o completa oscurità (o opacità) del significato, alla messa in discussione dell’atto comunicativo (sia con finalità metacomunicative che di altro tipo). In tal senso, utile risulta il concetto di cornice così come lo intende Erving Goffman in Frame Analysis, cioè qualcosa capace di creare delle aspettative e del significato precostituito attorno a qualche cosa nel soggetto facente esperienza di quella data cosa (un testo, nel nostro caso). Un primo esempio di scrittura parzialmente “opaca” potrebbe trovare rappresentanza nelle opere letterarie in cui l’autore, nel dare l’apparenza di essere in un patto comunicativo con il lettore (di giocare sullo stesso piano linguistico – formale), crea invece continue interferenze e delusioni di aspettative (ad esempio, assemblando più lingue diverse nello stesso testo, alterando dall’interno la sintassi, non rispettando coerenze di vario tipo). Mi verrebbero in mente alcuni lavori di Emilio Villa. È qualcosa di diverso rispetto a quanto accade nel mancato o nel non presente atto comunicativo dell’asemic writing e del glitch. Cosa pensi a riguardo? Dove si situa la distanza tra lo straniamento dovuto alla rinuncia alla parola in favore del segno grafico asemico e lo straniamento insito nella creazione di una frattura interna alla parola stessa, alla sintassi, alla lingua?

 

MG: Mi tenta l’idea di una gradazione, dal “linguistico riconoscibile e semplice compreso”, al “linguistico riconoscibile e complesso compreso”, al “linguistico riconoscibile complesso non compreso”, al “linguistico non riconoscibile semplice incomprensibile”, al “linguistico non riconoscibile complesso incomprensibile”, al “non linguistico” via via in ulteriori gradi di incomprensibilità.

Tenderei in ogni caso a riservare “asemantico” a quel modus scribendi deviato/deviante che pertiene al paroliberismo o in generale a effrazioni all’interno di un alveo alfabetico storico, reale, riconoscibile. Mentre direi “asemico” ciò che esce dalla convenzione alfabetica o ampiamente segnica-traducibile, e fluttua in un ambiente che azzera alla radice riconoscibilità, realtà e storicità.

Ciò non toglie che anche in questo schema si possano stabilire gradazioni differenziali tra le due aree, e non sempre (o non necessariamente) una separazione netta.

 
 

CS:  La transmedialità, forse intendibile come un atto di “traduzione” da un media (la fotografia, la scrittura, la manipolazione realizzata al pc) all’altro, è insita nel processo di produzione di senso (cosa diversa dal significato) dei materiali di Glitchasemic. Anzi, proprio il concetto di glitch, se ripercorso storicamente, ha a che fare con una “traduzione” transmediale: esso nasce nel vocabolario dell’elettronica e da lì trova poi spazio e utilizzo nella musica o nell’ambito della produzione digitale di immagini sia fisse che in movimento (dunque fotografie e film).

In un tuo intervento (glitches brew) parli diffusamente di traduzione ed errori di traduzione relazionandoli al concetto di glitch.

Insito in questo processo traduttivo e transmediale di materiali (che avviene nel farsi, nell’atto del writing) c’è già la dimensione dell’interferenza, del glitch, di un’opacità che consente a un media di tradurre e portare a svelamento solo parte di un senso già espresso da un altro media?

Restando sul tema della traduzione, in un intervento di presentazione a Glitchasemic pubblicato su Antinomie, scrivi:

Difficile non osservare che il generale vivere di codifiche e ricodifiche da parte di una intera società (non solo occidentale) e dei suoi segni è sostanzialmente mise en abîme o cannocchiale senza fine, insomma il più che classico gioco di specchi affrontati che non consente di mettere un punto fermo alle deviazioni e derive del collettivo girovagare passeggiare perdersi non solo nei boschi narrativi e interattivi ma anche nelle inaggirabili e forti foreste di segni e simboli che otticamente, dico sul primario piano retinico, affollano la semiosfera nel suo complesso.

La stessa logica del meme, a sua volta e più volte ri-memizzato, suggerisce qualcosa in proposito.

Questo continuo stare in atto nella “traduzione” si pone dunque solamente come gesto metaletterario, di messa in discussione della cornice – scrittura, di continua riflessione intorno al linguaggio e al significante?

 

MG: Più che di uno svelamento parlerei di un (ri)opacizzarsi, o meglio ancora di un “muovere verso la pertinenza di un (generale) opacizzare”. Scivolare cioè sempre “più” (entro una scala però non numericamente stabilita) verso l’inevitabile del generale errare.

Il glitch non è per forza concepibile come un momento di errore in un flusso ordinato, ma semmai come l’apertura momentanea, uno spiraglio, sullo sfondo generale generalmente “sbagliato” di qualsiasi percezione-traduzione-emissione di segni. Questo sfondo o cielo è, appunto, l’altro da una presunta esattezza di segnale, o identità, o “rispondenza”.

Alle spalle del segno, alle spalle di qualsiasi segno, a premerlo letteralmente sulla carta, c’è l’insieme infinito di tutte le deviazioni da e negazioni di ciò che si direbbe quel segno sia. La pressione proprio fisica di tutto l’altro, di tutti gli “errori”.

È, almeno, quello che ho tentato di dire in Glitches brew. (In modo immaginoso, figurato, non scientifico, mi rendo conto).

Sulla metaletterarietà non saprei. È qualcosa che considero sempre (almeno per ciò che mi riguarda, anche in termini di riflessione) come un’intermittenza. O qualcosa di istintuale, che c’è e non c’è. Non è affatto sempre presente (alla mente). Né è detto che agisca sotto il livello della coscienza.

 
 

CS:  Il tuo libro è uscito per una casa editrice americana dal taglio internazionale, Post Asemic Press di Minneapolis, con un apparato critico comprendente saggi di Michael Betancourt, Kenneth Goldsmith, Mark Amerika e Jim Andrews. Questa “apertura internazionale” della tua pubblicazione, oltre a sottolineare quella che potrebbe essere un possibile universalità extra – culturale ed extra – traduttiva della pratica dell’asemic writing (in quanto scrittura e segno liberato da una lingua), credo possa corrispondere anche a una precisa scelta di campo e a una volontà di non chiusura dell’orizzonte di accoglimento dell’opera entro i limiti e i confini di uno spazio letterario nostrano. Come mai questa scelta? Ritieni ci siano spazi di pubblicazione (riviste, case editrici) in Italia dedicate o aperte a progetti e ricerche di scrittura simili alle tue? Quali?

 

MG: Secondo me, almeno stando a quel che vedo, l’asemic writing qui in Italia sta cominciando a fare capolino più robustamente, qua e là, in mostre e cataloghi e siti, solo da pochissimo. Dopo circa vent’anni di martellamento internazionale in questo senso.

L’Italia è tradizionalmente ottusa, in parecchi campi, questo incluso.

Avere interlocutori fuori d’Italia è tutt’ora un imprescindibile. Anche se infine perfino qui da noi qualcosa si muove.

Ne dico un’altra. Da qualche tempo molti writers e graffitari in parecchie parti del mondo stanno operando come “anti-stylers”, ossia rifiutando la transitività piatta del lettering, dei “messaggi”, evitando(ne) la “bellezza”. Si muovono verso il territorio asemico, deforme, brut, disturbato, otticamente cacofonico. L’opposto della calligrafia, anche. E questo vale pure per il loro abbigliamento, totalmente trasandato, economico, non appariscente.

L’opposto netto dei trappers, che infatti – in tutta logica – nella società dello spettacolare avanzato anzi fradicio – riscuotono il successo dei divi, degli influencer, dei gangster, di quelli che, insomma (col parlar chiaro e ritmico), hanno sfondato la linea dell’invisibilità. (Anche se poi questo significa semplicemente che sono stati messi sullo scaffale, in vendita).

Ebbene, cosa sembra attecchire in Italia, in primis e in tutta evidenza? Ma ovviamente la logica del trapper. L’alleanza tra ritmo e pellicciotti fucsia da cafoni palestrati.

Magari al silenzio delle scritture asemiche e glitch si dedicheranno altri. Storici, o archeologi. Gli italiani devono capire, si devono divertire, non hanno tempo da perdere.

 
 
Le foto di copertina sono di Dino Ignani
 
 
 
 
1 Tic Edizioni 2020
2 A cura di Francesco Aprile e Cristiano Caggiula, edizione fuori commercio 2018
3 Breve, improvvisa e imprevedibile malformazione di un’onda teletrasmessa, per via di qualche errore inatteso nel sistema di emissione o trasporto
4 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi 1999