Un vuoto di narrazione


 

Quanto mi sembra più evidente e positivo nelle motivazioni che sostengono le iniziative del progetto post68 riguarda la necessità di ripensare questo lungo periodo (dalla fine degli anni ’60 a oggi) sulla base di un semplice dato di fatto: al tracollo dell’attenzione generale per la poesia è corrisposto un vuoto di narrazione – come si usa dire oggi – e, andando un po’ oltre, mi azzarderei a dire che non vi è un disegno riconoscibile della poesia degli ultimi 50 anni (più o meno) se non nei termini che in filosofia perterrebbero alle “ontologie regionali”, oppure fuori dalla filosofia, mi si perdoni il gioco di parole, alle antologie regionali.

Mi riesce più facile dare un chiaro riscontro di quanto appena scritto proponendo un esercizio, che compio personalmente per dovere, e che però potrebbe essere interessante per tutti: i manuali scolastici di letteratura italiana mantengono una coerenza (da una quarantina d’anni la stessa coerenza) fino alla metà degli anni ’70, a voler essere generosi, giungendo agli anni ’80 con l’opera tarda di qualche poeta nato nei primi tre decenni del secolo scorso; quello che viene dopo è affidato al buon senso, alle conoscenze personali e alle inclinazioni dell’estensore delle pagine, che procede per “medaglioni” non correlati, adducendo a volte motivazioni curiose, quali il fatto che il poeta “ha avuto successo di pubblico” (ma perché allora non ci sono, nei capitoli precedenti, Lorenzo Stecchetti, Angelo Silvio Novaro e Trilussa?). Epperò quelle pagine, in realtà, sono tanta grazia: la media dei programmi scolastici reali, quelli presentati per l’esame di stato, si ferma a Montale (ma come se Satura non esistesse) e dintorni. A mia esperienza, la più grande rivoluzione nel canone poetico reale nella manualistica corrente dal 1978 a oggi è stata quella di sostituire Quasimodo con Saba, nella triade che proprio in quell’anno (1978) è stata oggetto di esame di stato: Montale, Ungaretti e, appunto, Quasimodo. Montale era ancora vivo e gli altri due deceduti da una decina di anni.

Al dunque, è una questione di “formazione del canone”: non si toglie una pagina, anzi se ne aggiungono, alla fine dell’’800 e all’inizio del ’900 (un secolo fa) dove si arenano le migliori energie scolastiche; e resta una paginetta, salvo miracoli, per Sereni, Zanzotto, Caproni e… l’ormai ineludibile Merini. È evidente che il nodo tematico è qui: perché, per esempio, Sereni, Zanzotto e Caproni, non si sono assestati nella coscienza letteraria di chi fa i manuali e di chi li usa come è stato per Montale, Ungaretti e Quasimodo (e va già bene che Quasimodo sia finito in panchina per lasciare il posto a Saba!).

Mi potrei compiacere, a questo punto, per la pluralità delle esperienze, per la ricchezza delle proposte, per la moltiplicazione dei luoghi di nascita e di emanazione della cultura che caratterizza la poesia che in Italia si produce dalla fine degli anni ’70 in poi. Lo farei volentieri, se ciò fosse raccontato da un punto di vista sensato, disegnando una mappa riconoscibile e coerente. Invece così non è: nulla consola dal constatare l’assoluta casualità delle scelte. A questo punto sarebbe interessante iniziare un breve capitolo sulla situazione della manualistica scolastica, sul sistema delle adozioni, etc. Ma preferisco tornare al punto, ricordando però che i manuali scolastici sono il vero perno del sistema di trasmissione della cultura: basta confrontare la nuova ricchezza e efficacia dei manuali scientifici e la loro evoluzione in questi stessi decenni per farsi un’idea.

Ma raccontare, produrre una narrazione – come si usa dire oggi – significa prima di tutto fare i conti con il tempo e, nel tempo, riconoscere eventi, sviluppi e conseguenze che diano significato alla scansione delle opere. Tenendo conto che si può anche procedere per qualità o richieste che hanno altro fondamento da quello del “valore poetico”, non da tutti riconosciuto come dirimente, anzi da alcuni negato, in favore di altri più importanti. Onestà sarebbe dichiararlo e non confondere le acque, dicendo subito, per esempio: per me la poesia è da valutarsi sul piano sociale, o politico, oppure – che altro? – psichico. Se invece continuo a pensare che la poesia abbia un valore in sé (il quale, ça va sans dire, si connette con tutto il mondo, nei suoi moltissimi e diversissimi fatti) devo collocare ogni altra ragionevole istanza alla luce di questo principio fondante. È una presa di posizione non facile, e obbliga a valutare e discutere tutte le ragioni degli altri, dato che la poesia viene al mondo in contesti di relazioni umane, culturali, economiche ben definite. Ma che lo dico a fare? Chi legge queste pagine sa benissimo che è così. Però accidenti ai circoli ermeneutici, che possono essere oziosi o virtuosi! La definizione dei valori della poesia, che non siano astratti o addirittura insulsi, si fonda su scelte di poetica e di poesia; in altre parole: devo avere un’idea di poesia per rifare il canone e devo rifare il canone per sostenere questa stessa idea di poesia. Per quanto mi riguarda, la questione riguarda, in ultima analisi, il rapporto tra lingua e comunicazione sociale, nel loro necessario accostamento e nella loro radicale conflittualità nei confronti della poesia.

Ecco allora che la questione delle date non è di secondaria importanza. C’è davvero uno stellare obiettivo che ci si dovrebbe tutti proporre, ed è quello di lavorare a un nuovo canone, coerente, semplificato, che consenta di raccontare la poesia italiana proprio nei manuali scolastici. Non intendo scrivere un manuale, non è questo l’obiettivo. È qualcosa che potrà avvenire solo dopo una partecipata e attenta discussione. Sempre che a qualcuno interessi. Se è chiaro che ognuno “inventa i propri precursori”, come voleva Borges, e se lo scopo di modificare il canone vigente è quello di arrivare a una pagina dove ci siamo noi, va bene, si sa, il poeta è narcisista, e deve essere convinto di quello che fa. Proprio per questo ognuno dovrebbe chiedere di farsi aiutare. Fare delle proposte e sentire le controproposte. Chissà se è possibile?

Torniamo alle date: non credo che le date di nascita abbiano poca importanza, ma neppure che siano decisive, così come l’ipotesi di una generazione poetica prende senso soltanto dal momento in cui quella stessa generazione si riconosce come tale o affronta insieme un’esperienza cruciale (la guerra di trincea, per esempio, ma in questo caso la “generazione” già si suddivide in parti). Provo a mantenere però l’importanza che l’anno di nascita e l’appartenenza a un vasto gruppo anagrafico comporta, e che vale soprattutto per gli anni successivi: l’infanzia, la formazione, la progettualità della prima giovinezza, le scelte obbligate che nel maturare della giovinezza diventano decisive per la vita. Questo conta e vale. Come conta e vale, per gli stessi importanti passaggi dell’età, la condizione generale della vita materiale, del lavoro, della comunicazione sociale e dell’accesso (non scontato) a qualcosa che deve essere perlomeno “scelto”, se non “voluto” come la poesia. Però le ragioni per soffermarci di più sul tema del periodizzamento sono molte: sarà necessario rinvenire (o reinventare con ragionevoli motivi) una scansione temporale che raccolga più fatti significativi, e alla luce di quelli combini il collegamento con l’anagrafe dei poeti e le date di produzione delle opere.

Credo che sia vero che le ragioni del tracollo della solidarietà tra la cultura italiana e la poesia maturino e conquistino il campo nel corso degli anni ’60. Ma le conseguenze sono successive: la ricaduta negativa si ha, nella sua pesante evidenza, negli anni ’80. Ma prima di ragionare sulle conseguenze, mi concentrerei sulle premesse. E forse da queste premesse di potrebbe evincere qualcosa di interessante anche per la comprensione attuale del periodo precedente. Intendo proporre una riflessione, che punta su una prima ipotesi di periodizzamento, intorno a una definizione molto flessibile come quella di Dopoguerra, per tentare invece di chiuderla tra due date.

Il Dopoguerra Italiano: 8 settembre 1943 / 10 novembre 1975. Il Regno d’Italia conclude la Seconda Guerra Mondiale l’8 settembre 1943, quella che viene dopo è la storia di un’occupazione, dell’alleanza con gli occupanti da parte di un gruppo di continuatori dell’esperienza totalitaria precedente, del dissolversi di un esercito, di molte ritirate da diversi fronti e di molte prigionie, di una resistenza organizzata all’occupazione (si noti che ho cercato le definizioni più neutre). Il 10 novembre 1975 è la data del Trattato di Osimo, con il quale si conclude effettivamente la disputa sui confini della Repubblica Italiana, decidendo in via definitiva la linea di demarcazione tra l’Italia e la Jugoslavia. Ritengo che invece di raggruppare alcune opere nelle categorie di “letteratura della Resistenza” o di Neorealismo oppure Post-ermetismo, puntando sulla discontinuità tra il periodo precedente e quello postbellico, sia più interessante ragionare sulla poesia degli autori già affermati prima della guerra, su quei giovani che partecipano da neolaureati o da studenti alla guerra (e alla prigionia e alla Resistenza, e a qualcos’altro che non è né l’una né l’altra), infine sugli autori che nati durante la guerra, o intorno a quegli anni, della guerra non hanno esperienza ma vicina memoria. Avremo in questo modo una prospettiva che vede tre diversi orizzonti (per formazione ed esperienza) che convergono su quegli ultimi anni ’60 che davvero sono importanti per capire quello che accade alla poesia e alle sue conseguenze future. Dal fallimento dei tentativi di neorealismo poetico (studiati a suo tempo da Walter Siti), alle contrapposizioni tra sperimentalismo e neoavanguardia, la questione della eteronomia e dell’autonomia delle poetiche trova qui il groppo che non si può recidere, ma che può essere percorso nelle sue visibili tratti.

Dalla seconda metà degli anni ’60 si concentrano e diventano esplosive le forze sprigionate dal Dopoguerra (periodizzato come da suggerimento) e proprio nel ’75 si può fissare un confine che vede il picco di un conflitto culturale e di un mutamento sociale, che coinvolge la lingua e la comunicazione, e che non ha precedenti nella storia per quantità e, soprattutto, per velocità di realizzazione. Dato che devo fermarmi qui e rimandare – chissà – a una prossima eventuale puntata, elenco qualche argomento: industrializzazione del Paese (sotto il segno dello statalismo e del potere dei partiti) e relativo ruolo dell’industria editoriale; demografia in esplosione (boomer) e loro accesso all’istruzione di massa (scuola media unificata e accesso all’università da tutti gli indirizzi superiori); creazione di una lingua italiana “di popolo”, debitrice del suo status più ai media audiovisivi che ai provvedimenti statali e alla cultura ufficiale; polemiche, riflessioni e dibattiti su questa lingua definita “standard” e “veicolare”; emigrazione interna e, in parallelo, il declino e la fine del mondo contadino (con i dialetti costretti a “immigrare” nel nuovo mondo consumistico/borghese); rottura del cordone ombelicale tra lingua e poesia, che all’improvviso fa apparire convenzionale e assurda la versificazione tradizionale, al punto da preferire le poesie in lingua straniera tradotte in italiano.