Gli eventi e la scena poetica


 

Quando sento i poeti friulani ricordare la stagione irripetibile degli anni Ottanta e Novanta, fatta di incontri e letture, tutto un trovarsi, discutere di poesia fino a azzuffarsi, lasciarsi già col pensiero del prossimo incontro e di fiondarsi a leggere l’autore imbeccato dall’altro, macinare chilometri con auto improbabili per ascoltare il nuovo poeta de lohn, spingendosi addirittura fino a Padova o a Milano, la caccia all’ultimo numero della rivista, magari comprato a turno e spartito; quando sento i poeti friulani ricordare quella mitica stagione, tramontata e irripetibile, li invidio: io, mai visto niente del genere (al suo cospetto, il presente è una corsa sul posto). Contrapporre però quella stagione alla odierna landa ha a che fare con la sensazione di sentirsi pionieri di terre ancora incolte, una sensazione che coincide con la miglior parte della vita di ciascuno. Quelli furono anni senz’altro salienti non solo per loro, ma anche per il nostro Paese, investito dalla «mutazione antropologica»: l’estinzione della civiltà contadina e la diffusione di quella industriale, l’inurbamento e l’immigrazione interna, la scolarizzazione di massa, la diffusione dell’italiano nella comunicazione quotidiana (grazie alla televisione), la crescita dei consumi, le politiche a favore dei diritti individuali (gli individui in quanto lavoratori, donne, giovani).

In questo scenario si è formato il nostro modo di pensarci, considerando che l’identità è un’invenzione moderna all’interno della cornice del capitalismo e della democrazia, dove l’uguaglianza di tutti implica anche l’irripetibilità di ciascuno, sia nei diritti sia nelle esigenze del lavoro. Già finito il tempo degli eroi, si dissolve anche quella che Taylor chiama «la vita comune» (cioè i beni comuni del lavoro e della famiglia, nella sua serena dimensione quotidiana e nella sua continuità biologica), la quale invece coincide con l’esistenza personale. Così il bene condiviso si fa immanente e si interiorizza nella realizzazione di sé per distinguersi dagli altri e sfuggire all’oblio e all’anonimato. Se consideriamo le forme poetiche, è per questo che a partire dalla svolta romantica si diffonde la cultura dell’espressivismo: il vissuto di un essere umano si riversa nella forma in cui scrive, poiché egli non solo crede che il suo sguardo sul mondo, pur nei limiti della sua esistenza particolare, possa avere valore in sé, ma ha anche fiducia che gli altri si possano riconoscere nel discorso del suo vissuto. Lo sguardo dell’individuo acquista così valore condiviso proprio grazie alla sua originalità, ossia la sua capacità di distinguersi dagli altri, anche sul piano stilistico. Ne deriva che l’unico bene da condividere è il senso dell’esistenza, che dipende soltanto dall’espressione personale. È come se, tolti i beni comuni e la storia, resta l’animale parlante nel fluire delle generazioni, la cui coscienza linguistica lo pone di fronte a una mancanza originale nel grembo del suo esistere, certamente acuita dalle pressioni tecnologiche e sociali del presente.

Villalta delinea il periodo del dopoguerra dall’8 settembre 1943 al 10 novembre 1975, cioè dalla fine del Regno d’Italia al Trattato di Osimo, che definisce i confini nordorientali del nostro Paese. Due eventi che circoscrivono la nascita di uno Stato democratico, nei suoi confini e nella lingua comune. Fino agli anni Settanta, ricostruire la storia letteraria del nostro Paese è impresa abbastanza condivisa: con qualche assestamento, il canone tiene: ci sono le tre corone, espressione di una linea postsimbolista e di una onesta, c’è un neorealismo lombardo e l’eversiva neoavanguardia. E dopo? Se non c’è un discorso comune, non c’è continuità; se non c’è una tradizione condivisa, ognuno prende una posizione all’interno di una congerie di modi di fare poesia, in competizione tra loro.

La tradizione sono i resti che gli esseri umani hanno lasciato dietro a sé, gettandoli in avanti, in eredità, per fermare la propria temporalità e dialogare col tempo che siamo chiamati a vivere; è il modo in cui raccontiamo e rendiamo coscienti le opere compiute da altri ogni volta in cui vi si posa il nostro sguardo orizzontale, simultaneo e mobile, facendo risuonare piani temporali sempre permeabili a seconda di come tra le generazioni prevalgono, di volta in volta, le diverse componenti cognitive; non dunque per filtri e gerarchie, ma per persuasiva adesione al proprio mondo. La tradizione è quindi un organismo in divenire, è il risuonare degli altri in me perché prima di me ha risuonato in altri esseri umani venuti prima di me.

Le date restano un buon esercizio, anche come pratica didattica, per muoversi lungo il processo che tiene insieme le dinamiche storiche e la condizione degli esseri umani, anche se un sistema culturale è percorso simultaneamente da spinte innovative o in continuità rispetto alla tradizione. Basti pensare che nel 1956 escono La bufera e altro e Laborintus: due libri che, da soli, potrebbero spaccare la lettura dello scorso secolo, pervasi da tensioni linguistiche differenti, radicate rispettivamente nella lirica simbolista e nelle avanguardie storiche (come forse, a scuola, si chiamano ancora). Per giunta, se volessimo ricomporre una storia delle scritture di avanguardia, troveremmo fenomeni di rilievo lungo tutto il Novecento: i gruppi (dal Futurismo al Gruppo 93), la poesia concreta e visuale, la «terza ondata», la «prosa in prosa» e le attuali scritture che si definiscono «di ricerca». Allo stesso modo potremmo ricostruire l’articolarsi di una linea antinovecentista, attenta al quotidiano e alla prosasticità. Perfino quando, in alcuni frangenti storici, pareva di trovarsi al culmine di uno slancio progressivo (ad esempio durante l’Illuminismo francese) o che certe forme letterarie potessero raffigurare pienamente la modernità (come nel caso del romanzo naturalista), perfino in quei momenti spiccavano altre tendenze distanti, quando non contrarie. Istanze cognitive diverse e discordanti agiscono nelle opere e nei movimenti che convivono in base alla capacità di incarnare il sentire prevalente degli esseri umani in un dato periodo1.

Facciamo ancora un esempio. Un’altra data: per consuetudine il 1971 è considerato l’anno di svolta del Novecento poetico in Italia. In gennaio Montale pubblica Satura, che d’un colpo rovescia il suo classicismo tragico in un autobiografismo disincantato dalle tonalità ironiche. In aprile Pasolini pubblica Transumanar e organizzar, in cui anch’egli assume le tonalità diaristiche del vissuto personale. A maggio esce Viaggio d’inverno di Bertolucci, che drammatizza la lirica, allarga i confini lessicali, rende il verso più narrativo e fa prendere parola a voci spesso indistinguibili. In autunno esce Su fondamenti invisibili di Luzi, dove la voce poetica si lascia attraversare dalla vita e dalla parola, in ascolto del magma del pensiero. A marzo era uscito Invettive e licenze di Bellezza, dove un «io sbudellato» esibisce il proprio vissuto senza alcun interesse per l’orizzonte politico e sociale. Sarà Bellezza a dire: «Non do nessuna importanza alle generazioni. Le generazioni non esistono. Siamo tutti contemporanei»2.

Torniamo alla data indicata da Villalta, il 1975: anche questa basterebbe per spostarsi in avanti e all’indietro lungo tutto il Novecento: Montale vince il Premio Nobel (e pronuncia all’Accademia di Svezia il discorso «È ancora possibile la poesia?»), Pasolini viene ucciso, Berardinelli e Cordelli curano Il pubblico della poesia, l’antologia che, più di altre, prende atto da un lato che il nuovo pubblico della poesia, cioè i suoi lettori, vuole esprimere le proprie «vibrazioni», senza schermi, come accade nei festival (vedi l’emblematico Castelporziano, nel giugno del 1979), nelle letture e nelle contaminazioni sceniche, che fanno uscire la poesia dai consueti spazi e la articolano in chiave performativa e liberatoria nel segno di una sua spettacolarizzazione; dall’altro che si è disgregata la società letteraria − per capirci: lettori, mercato editoriale, istituzioni letterarie (scuola, università, critica): se fino agli anni Settanta i poeti discutevano di letteratura come fosse il destino del mondo, a viso aperto, negli spazi pubblici e nei media, provocando perfino schieramenti, convinti che le scelte formali avessero un valore etico, in seguito la poesia è diventata quel paziente inascoltato quale oggi appare, se non fosse per il perdurare del suo insegnamento (di natura storica e antologica) nell’istruzione primaria e secondaria, senza peraltro risultare una decisiva esperienza estetica per i giovani.

A partire dalla mutazione antropologica la poesia rifugge dalla lotta politica, perché all’individuo frammentato e alienato le ideologie e la storia parlano meno di Lacan, Sartre e l’esistenzialismo. Di qui il risorgere di un Heidegger estetizzato, insieme al pensiero debole e ermeneutico, che testimoniano la tensione verso un nuovo assetto epistemologico. Da quel momento proliferano diverse esperienze poetiche: «Braci», «Scarto Minimo», la scrittura materialista, i neometrici, i neodialettali, i neorfici, la poesia confessionale. Ad accomunarle sembra la volontà di rifondare la parola, dopo la sbornia della neoavanguardia, e una nuova relazione tra l’esperienza e la parola, i cui esiti migliori si inoltrano lungo una terza via, evitando da un lato gli espressionismi della postavanguardia, dall’altro il minimalismo, andando invece a cercare i punti limite della comunicazione, lo scarto tra la lingua che comunica e la lingua che incarna l’esposizione e l’alterità umana, dove sono maggiormente esposti il corpo e il respiro.

Cosa significa far parte di una generazione? Forse riconoscere che un evento (o una corona di eventi) provoca un mutamento nel modo di percepirsi e di percepire il tempo in cui si è chiamati a vivere. Lo è stato per le guerre mondiali, lo è stato (forse) per il movimento culturale sul finire degli anni Sessanta, non so quanto lo possa essere stato per avvenimenti successivi. Mi spiego.

Se è vero che per chi è nato negli anni Settanta e Ottanta eventi come la caduta del muro di Berlino (naturalmente con il suo portato) e delle Torri Gemelle, le stragi di mafia e Tangentopoli (che hanno provocato il crollo del sistema partitico del secondo dopoguerra e l’avvento del ventennio berlusconiano), è pur vero che essi (e altri eventi che si potrebbero menzionare) non hanno cambiato di default la percezione dei poeti post68. Quando è caduto il muro di Berlino io avevo 11 anni, Tommaso Di Dio 7, Massimo Gezzi 13: come può aver inciso quell’evento, la fine della guerra fredda, la costituzione di un nuovo scenario geopolitico su tre ragazzini? Mi pare che voler ricostruire a ritroso uno scenario comune in cui riconoscersi sia un’operazione artificiale, per giustificare le diverse forme po-etiche; se quello scenario esistesse, avrebbe già generato un riconoscimento. Più che un evento, conta a che punto della vita si è quando esso accade.

Si può forse cercare se gli effetti di quegli eventi abbiano lasciato traccia in un tempo più lungo, come le scorie di una nube tossica, su quella non generazione3, quando la coscienza è maturata, ma allora scopriremmo che hanno lasciato traccia in tutti. Non credo ci sia un evento capace di polarizzare la percezione contemporanea, se non piuttosto un insieme di eventi accomunati da una serie di crolli e sospensioni (crollo di narrazioni politiche e sociali e una certa precarietà che permea vari aspetti dello stare al mondo), e forse ancora di più respirare una mutazione cognitiva all’interno di una pervasiva forma euforica di capitalismo che pone l’individuo al centro di un mondo esteso alla rete e si traduce negli imperativi di accessibilità, libertà e velocità. Un altro elemento comune è la distanza dagli eventi, cui si assiste da spettatori: un modo tele-visivo di osservare il tempo, in cui gli eventi non incidono davvero nella forma di vita occidentale. Una rete di spettatori, sospesi, nella rete, liberi e soli. Questo modo di stare nel mondo mi sembra poter essere condiviso, non solo dalla generazione Post68.

Credo che nella scena poetica ci siano risposte diverse, talora opposte, a questa condizione, ma si può condividere l’idea di una lingua poetica che si fa più inclusiva, in una tensione vitale rispetto alla lingua della comunicazione per mostrare la temporalità della condizione umana, grazie a un verso più narrativo e «per interposta persona», in cui altre voci entrano nel discorso lirico. In un futuro manuale di storia letteraria potrebbe essere questa la via da condividere?

A me pare che solo di recente sia ripreso un moto di confronto costruttivo, che non vorrei si avvitasse solo a marcare posizioni e a proporre «cataloghi di tendenza». Mentre un fervore di rinnovamento abbracciava le forme poetiche tanto quanto quelle sociali e politiche, quelle forme tuttavia scomparivano nel corpo sociale, cercate in modo equivoco in altre forme estetiche e nel diffuso sentimento di infotainment. Anche oggi si creano contenitori per nuovi autori, ma è come se a monte ci fosse una sorta di predelusione, la sensazione di trovarsi in una landa e, in attesa di barlumi, bisogna fare qualcosa; o la sensazione, peggiore, di ripetere il già visto, come se ogni iniziativa (libri pubblicati, caccia all’esordiente, premi under 40, premi opera prima, premi mai sentiti da inserire nel curriculum, incontri in cui un postmaestro presenta un giovane autore, prefazioni) non fosse decisiva, ma nel frattempo tenesse accese le braci. A chi attribuire la colpa della landa? Al lândeur, che eventualmente rappresenta l’esito di questo dissolversi? Ai maestri e ai post-maestri, che hanno visto estinguersi l’estate poetica, essendone in parte i responsabili? Vinti e assolti, ancorché non giudici implacabili, in messianica attesa di un (altro) nuovo, più vero, simile a quello già vissuto.

È vero sempre l’adagio di Arbasino: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». È un portato degli ultimi decenni? Dove l’adolescenza sembra non finire mai, procrastinando il tempo delle scelte e l’ingresso nell’età adulta, nelle more della precarietà (del lavoro, delle relazioni, geopolitica, terrorismo, crisi finanziarie, pandemia), svaniti gli ultimi riti di iniziazione (tranne forse, finché reggerà, l’esame di maturità). Siamo tutti giovani finché non diventiamo poveri o malati, siamo giovani perché siamo neutrini, spettatori delle nostre vite, incompiuti e possibili? Anche in questo caso la colpa ricade sui lândeur, non sui padri o su chi è venuto prima. Con una novità rispetto al passato: tra le generazioni non vi è conflitto, i giovani non intendono fare rivoluzioni. Hanno cercato di farle i padri, hanno fallito e si sono assestati nel disincanto. Protestare non serve, meglio dialogare per disinnescare i conflitti. I lândeur non credono nella protesta: è tempo inutile perché la fine è già scritta, mentre il dialogo serve a tutti, a chi attende e a chi rinvia.

Eppure qualcosa di nuovo c’è, specie tra le voci «più giovani»: la tradizione alto-basso e l’ibridismo formale praticati fuori dall’antica contrapposizione tra poesia sperimentale e poesia lirica, i cui confini sono posti in questione, erosi da dentro, in modo più forte rispetto al sublime dimesso o alla interposta persona (nel testo parla una singolarità, che mostra la vita di una mente?); il tentativo di scomporre la percezione, e di accostare la materia vivente e inorganica, lessico indeterminato e scientifico; accettare il dissolvimento e l’inconsistenza del soggetto nella rete dei viventi (che, in quanto tali, producono segni); accamparsi tra visione e sogno; saccheggiare la lingua poetica già stata in modo orizzontale, mescolandola in modo simultaneo e naturale con materiali multimediali e scientifici.

Proviamo a riconoscerci attorno ad alcuni libri importanti, per esempio degli ultimi vent’anni, proviamo poi a comprenderne le ragioni e a costruire un terreno comune. Proviamo a fare lo stesso con il rinnovarsi delle forme poetiche dagli anni Settanta, tracciando alcune linee formali e cognitive, anche distanti, pur nel loro partire dalla stessa istanza, perché in fondo il Novecento è il secolo lungo della poesia. Questo sarebbe un abbrivio migliore rispetto alla discussione sulla storia della non generazione di noi lândeur: una serie di corollari socio−economici che osservano (agiscono osservando) il mondo da una soglia di incompiutezza e di instabilità, come fenotipo di qualcosa che abita gli esseri umani, alla ricerca di un equilibrio biologico all’interno di fragili variabili sistemiche.

 
 
 
 

1    Fermo restando che vi è uno stare nel mondo particolare, in cui in un dato momento storico si manifesta un certo modo di sentire (potremmo dire la cultura di un’epoca), in accordo con il succedersi degli eventi e i mutamenti tecnologici, e uno stare nel mondo proprio degli esseri umani, in quanto macchine autopoietiche che, attraverso la lingua, generano ricorsive descrizioni di sé e dell’ambiente, le quali, incarnate nella mente, divengono il loro mondo. Se considerata in quest’ultimo modo, la condizione umana, cioè il «sentire» degli uomini, non muta tra le generazioni.

2    E. Chierici (a cura di), Sette domande sui poeti e sulla poesia, «Nuovi Argomenti», n.s., 14, 1979, 62, p. 37.

3    Elisa Donzelli, Poeti Post ’68. Il divieto di accorgersi, https://www.poetipost68.it/2023/01/13/poeti-post-68-il-divieto-di-accorgersi/.