Gli arborum bracchia di Vittorio Sereni


Amante dei classici e di Virgilio in particolare, traduttore dei Dialogues di Valéry nell’immediato dopoguerra, lettore attento di Proust e della Recherche, Vittorio Sereni conferisce tratti antropomorfici alla natura, riattualizzando l’antico motivo degli arborum bracchia.

Ricostruiamo per sommi capi la storia di questo topos. Nel mondo latino, anche per la particolare mobilità del lessico tra la sfera agricola e la lingua comune, l’immagine degli arborum bracchia, e cioè dei rami animati degli alberi, ricorre spesso: fra i tanti che la tentarono, Virgilio e Ovidio.

Dal secondo libro delle Georgiche, vv. 290 e ss.:

[…] l’ischio […] quanto più si tende con la cima / all’aria dell’etere, tanto più penetra con le radici negli Inferi [Tartara]. / […] Resta ben saldo e molte discendenze [multos nepotes], / molte generazioni di uomini [multa virum saecula] crescendo vince con il suo durare; / allora tendendo ampiamente le braccia e i suoi forti rami [tum fortis late ramos et bracchia tendens], / da un lato e dall’altro sostiene col tronco un’ombra smisurata.

Si prenda ora il mito di Dafne (Met., I, 548 e ss.):

A preghiera appena finita, un pesante torpore le pervade le membra / il tenero petto si fascia di un’esile fibra, / i capelli in fronde, le braccia si allungano in rami [in ramos bracchia crescunt]; / il piede prima tanto veloce giace in pigre radici, / il volto svanisce in una cima: la sola lucentezza perdura in lei.

Se nella poesia di Virgilio rami e bracchia sono significanti diversi del medesimo referente, in Ovidio, al contrario, il referente si sdoppia: prima e dopo il processo di trasformazione («in ramos bracchia crescunt»). Il pathos s’inserisce nella natura per il tramite nuovo e potentissimo della metamorfosi.

Per brevità, riduciamo a un punto i venti secoli che ci separano da Augusto, e alla Roma imperiale subentri la Parigi occupata dai nazisti. Chiude il cerchio la traduzione francese delle Bucoliche ad opera di Paul Valéry. Negli anni della guerra il poeta di Sète scrisse anche il Dialogue de l’arbre, che dichiara la lunga frequentazione delle Georgiche. Ecco due loci significativi del Dialogue, nella partecipe versione di Sereni:

L’uno e l’altro [l’Albero e l’Amore] sono cosa che, da germe impercettibile nata, cresce e si fortifica e si estende e si dirama; ma di quanto s’innalza verso il cielo (o verso la felicità) di tanto deve sprofondare nell’oscura sostanza [i Tartara virgiliani; n.d.A.] Di ciò che senza saperlo noi siamo.

E poco oltre:

Là, nel cuore stesso delle tenebre in cui si fondono e si confondono ciò che è della nostra specie e della nostra materia vivente, e ciò che è dei nostri ricordi e delle nostre forze e debolezze segrete, e infine ciò che è il sentimento informe di non essere sempre stati e di dover finire di essere, è riposto ciò che io chiamo fonte del pianto: l’ineffabile1.

Non c’è pensiero che, perseguito fino alle più immediate adiacenze dell’anima, non ci conduca su margini privi di parole.

Intesi quale specchio patetico delle nostre afflizioni, gli alberi compaiono anche nella Recherche. Proust li antropomorfizza facendone figura della memoria pura e spirituale che caratterizza la vita profonda della coscienza. Poco oltre la metà di All’ombra delle fanciulle in fiore (1919) si legge:

[…] mi slanciai più avanti in direzione degli alberi, o piuttosto verso la dimensione interiore in fondo alla quale li scorgevo dentro di me. Avvertii nuovamente, dietro il loro schermo, lo stesso oggetto conosciuto ma indistinto, e non riuscii ad afferrarlo. […] Nel loro gesticolare ingenuo e appassionato riconoscevo l’impotente rimpianto di un essere amato che ha perso l’uso della parola e sa di non poterci dire le cose che vorrebbe e che noi non riusciamo a indovinare. Presto, a un incrocio, la carrozza li abbandonò, trascinandomi lontano da ciò che credevo essere l’unica verità, da ciò che mi avrebbe reso veramente felice, quella carrozza assomigliava alla mia vita. […] Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia, come se dicessero: quello che non riesci a sapere da noi oggi, non lo saprai mai più. Se ci lasci ripiombare in fondo alla strada dalla quale cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi ti stavamo portando cadrà per sempre nel nulla2.

Com’è stato evidenziato in corsivo, l’essere amato che ha perso l’uso della parola altri non è che Dafne; «gesticolare» e «braccia» rinviano invece a georg. 2, 290 e ss.. Altre espressioni infine, sebbene più diffuse e graduate, sono sovrapponibili a quanto Valéry avrebbe compendiato di lì a vent’anni.

E torniamo finalmente a Sereni, da cui eravamo partiti.

In Ancora sulla strada di Zenna, testo-chiave de Gli strumenti umani (1965), la situazione in cui si trova il poeta è analoga a quella descritta da Proust: come il giovane Marcel dalla carrozza in corsa, Sereni contempla gli alberi che si muovono al vento causato dal passaggio della sua automobile; alberi che, allo stesso modo del paragrafo proustiano, spariranno alla prima svolta.

Da Ancora sulla strada di Zenna:

Perché quelle turbate piante mi inteneriscono? / […] / quelle agitate braccia che presto ricadranno, / quelle inutilmente fresche mani / che si tendono a me e il privilegio / del moto mi rinfacciano… / Dunque pietà per le turbate piante / evocate per poco nella spirale del vento / che presto da me arretreranno via via / salutando salutando. / Ed ecco già mutato il mio rumore / s’impunta un attimo e poi sfrena / fuori da sonni enormi / e un altro paesaggio gira e passa3.

L’umanizzazione delle piante è qui resa con braccia e tendere, attinti da Virgilio e ben noti a Valéry, e agitate, già occorso in Proust. In tutto sereniani risultano invece salutando e turbate. Ancora: al tipo virgiliano dell’albero che sfida e vince multos nepotes e multa virum saecula si accosta il motivo, forse leopardiano, dell’incessante e inutile ciclicità della natura.

Ne viene insomma che la memoria di Sereni, com’è proprio dei grandi, è intessuta della parola di altri scrittori. Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato.

Al riguardo, scriveva Eliot: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare […]. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico»4. Il senso storico costringe a scrivere con la sensazione quasi fisica di appartenere al proprio evo, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti ha una sua esistenza simultanea.

Il possesso del senso storico fa di Sereni un interprete attento e mai pedissequo di tutto quanto ci precede, e insieme lo rende più acutamente consapevole del suo posto nel tempo, quindi della sua e della nostra contemporaneità.

 
 
 
 

1    P. Valéry, Tre dialoghi, trad. di V. Sereni (1947), Torino, Einaudi 1990, pp. 125-126.

2   M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), trad. di G. Raboni, Milano, Mondadori 1983, p. 354-356.

3    V. Sereni, Poesie, a c. di D. Isella, Milano, Mondadori 1995, pp. 113-114.

4    T.S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in Opere. 1904.1939, Milano, Bompiani 2001, pp. 393-394.