La grande nevicata – Federico Italiano


 

“Imperturbabile come un samurai”, maneggiando la lingua come “un’ascia/ brandita da una skjaldmaer/ in tuta da jogging”, Federico Italiano continua ad allineare le sue liriche con sorprendente consapevolezza. La sua resta una poesia in cui parte del godimento si sprigiona da un obbligo – quello a indagare, a approfondire, insomma a studiare: dopo la “skjaldmaer” (i.e., guerriera vichinga), l’etimo insospettabile della parola “calumet”, che si dava per scontato derivasse da qualche tribù di pellerossa – oops, scusate, nativi americani; oppure la configurazione del misterioso psoas, il “muscolo della fuga”, che scopriamo di avere, e quanto possa dolorare, solo quando un fisioterapista ce lo fruga. Il movimento intellettuale di Italiano ha un carattere per così dire topografico: sfiorando con un dito un punto qualsiasi della mappa, esso tende a scivolare altrove, incuriosito, alla scoperta di arcipelaghi sconosciuti e golfi e città e vulcani, seguendo il disegno frastagliato dei confini (l’ineffabile “cartina muta” di Milo De Angelis) per poi scavalcarli. Lo stesso vale per le tavole anatomiche, gli erbari, i vocabolari, i libri illustrati e ogni tipo di variopinto campionario: nella Wunderkammer di Italiano le materie di studio sono disposte in un continuum, e la poesia non è che il tramite per attraversarle tutte, contrabbandando oltre frontiera merci preziose, marcando accuratamente le differenze grazie a segni precisi ma al tempo stesso con i medesimi segni connettendole – che poi sarebbe la caratteristica paradossale del nomos: disgiungere ponendo in contatto.

Nella sua nuova raccolta La grande nevicata le scorribande erudite sono un poco meno frequenti, vi è un più deciso scavo nel ricordo, nell’intimità ricostruita per scorci e dettagli, come in certe polaroid di Luigi Ghirri (“… ma noi,/ amore, rimaniamo al buio,/ scuri e nudi,/ sotto i piumoni”) ma il culto dell’esattezza, dello smalto formale è sempre quello. Spesso queste poesie si aprono con una specie di fiamminga ekphrasis ambientale (vedi La soglia del dolore, con la minuziosa descrizione di uno studio di osteopata, oppure Equinozio d’autunno a Tangeri, o ancora Un corvo, e nella stessa elegia che dà il titolo alla raccolta) realizzata giustapponendo particolari selezionati con scrupolo, per poi aprirsi in una concisa quanto succosa parabola narrativa, che non disdegna di disseminare qua e là una sentenza – come ad esempio “la gravità era strumento del piacere”, ricavata dalla favolosa esperienza dei bob improvvisati per scivolare sulla neve.

Per questi fattori e altri ancora, Massimo Gezzi ha scritto che quella di Federico Italiano è “una voce inconfondibile” – il che è senz’altro vero, ma io piuttosto che di “voce” parlerei di “pronuncia”, o addirittura “dizione”, sì, quella che si insegnava nelle scuole di teatro, un modo cioè di chiarire il linguaggio restituendolo alle nude unità di misura di cui è composto – suoni, verbi, fraseggio. Un po’ come quando Orson Welles suggeriva di recitare Shakespeare con accento scozzese, arrotando la erre altrimenti liquida in inglese, in modo che ogni parola avesse il massimo risalto.

Esempi di quanto sto tentando di spiegare li troviamo un po’ ovunque in questo libro, p.e. in Camera ardente, dove il cordoglio viene lacerato sarcasticamente (“… e in fondo alla strada il silenzio devoto/ del pomeriggio cedeva al rancore/ di un motorino truccato” – il corsivo è mio) o nella bellissima L’ultimo autobus, che val la pena leggere varie volte per la sua perfetta concatenazione di elementi, e che termina col sollievo del viaggiatore notturno alla partenza, quando finalmente la corriera si muove dal suo stallo: “Una lenta retromarcia, una curva/ nel continuum giallo e nero/ del terminal. Il bus avanza: l’aorta/ si quieta. Sei al sicuro. Per ora.”

Una dizione che culmina nella forse più impressionante poesia della raccolta, la Barbabietola, puro vertice sinestetico, dove la esibita bravoure del poeta viene comunque stemperata e fatta perdonare dalla chiave di commovente iniziazione alla vita. Nelle sei ottave ci sta dentro quasi tutto (botanica, geometria, biologia marina, una teoria dei colori, almeno quattro sensi su cinque – quindi le suore, le tavolate di formica, i conati di vomito, l’istinto morale, “i pennarelli della mia innocenza,” e la condanna capitale alle verdure che ha segnato l’infanzia di chiunque – perché “fanno tanto bene” dunque “vanno mangiate”…) e infatti io, per scherzo, ma mica tanto, ho definito questa poesia la Digitale purpurea di Federico Italiano, ma forse avrei fatto meglio a dire il suo Gelsomino notturno.

Qualcosa davvero di indelebile, insomma, l’esperienza di inghiottire intera una fetta di barbabietola, “innervosito ammasso purpureo,/ scintillante, vibrante/ come oloturia in un acquario,/ grondante sangue o qualcosa di rosso”…

E a proposito di influenze (argomento scivoloso che andrebbe forse evitato per non fungere da comodo appiglio al recensore che così se la cava sempre, buttandola in corner…), ebbene, leggendo Pietra pomice, realizzata in un crescendo virtuosistico di connotazioni, si viene tentati di vedervi certi procedimenti immaginativi di Valerio Magrelli, e più indietro le variazioni Goldberg di Eugenio Montale sull’anguilla, e addirittura il riferimento quasi preistorico alla Conchiglia fossile dell’abate Zanella – che oggi nessuno si fila più ma che ancora quelli della mia generazione mandavano a memoria, alle medie. E poi, i dodici corvi di Aratura autunnale hanno qualcosa a che fare con i Tredici modi di guardare un merlo di Wallace Stevens – pianeta il cui influsso sull’orbita non so quanto conti nel sistema solare di Italiano?

La famosa nevicata del 1985 chiunque abbia più di quarant’anni se la ricorda bene, chi allora era bambino (“con guance rosse, spilli/ di freddo nelle mani, la sciarpetta/ di lana grezza che incendiava il collo…”) persino meglio di chi era già adulto. Debbo dire che questa versione domestica, erotica e “locale” di Federico Italiano quasi quasi la preferisco a quella più dotta e cosmopolita. La sua autentica, rivoluzionaria novità rispetto a quanto si legge mediamente oggi, in versi ma più spesso ancora nella prosa narrativa, è la quasi totale assenza di sofferenza, o piuttosto (tanto per esser chiari) del sentimento esibito di essa, che invece formano una specie di dorsale tematica della produzione letteraria recente nel nostro paese. Questo potrebbe doversi a varie ragioni: una naturale propensione verso le forme esuberanti e riuscite della bellezza, di qualsiasi provenienza siano, dalle discipline scientifiche come da quelle artistiche; una razionale scelta tematica, simile per certi versi a quella del Manzoni quando in pieno romanticismo rinuncia a scrivere d’amore, perché, in sostanza, “già ne scrivono tutti”; oppure perché il dolore è già nelle cose, aderente e inerente ad esse, nella loro statuaria finitezza fisica (qualsiasi contorno formale, in definitiva, non è che un taglio spietato) e per la loro caducità, piombata, lucreziana, sicché non vi è alcun bisogno da parte del poeta di sovrasegnalarlo premendo sul pedale sentimentale – più brutalmente detto, facendo un po’ la lagna. Per sprigionare lo struggimento, intendo dire, sono sufficienti dei colpetti, o pressioni decise e concentrate come quelle dello shiatsu. Basta, ad esempio, rammentare un gioco di spie fatto coi walkie-talkie – quegli oggettini che furono gelosamente venerati come miracoli della tecnologia, simboli di una modernità appena nata e subito al tramonto, pretendendo di essere “spie sovietiche in mansarda,/ in cucina, nel sottoscala, quando/ si diceva: sbrìgati, ci hanno/ beccato, passo, aspettami/ che arrivo, passo e chiudo.”