La possibilità del manifestarsi dell’angelo – su Nel vortice. Il filo di Cesare Lievi


Cesare Lievi ha sempre affiancato alla sua attività di regista di prosa e di opere liriche un’intensa attività di scrittura: è drammaturgo affermato in Italia e all’estero, Teatro (Morcelliana 2022) è il primo volume che raccoglie suoi testi teatrali; è traduttore e autore di saggi e del romanzo La sua mente è un labirinto (Marsilio 2015). È poeta. Con la sua prima raccolta, Stella di cenere, nel 1994 ha inaugurato la nuova collana di poesia della Marsilio diretta da Giovanni Raboni; a seguire: Altrove qui (L’Obliquo 1998), Ardore infermo (Scheiwiller 2004), Poesie per il Monte Baldo (Il grillo lucente 2005) Nel tempo (L’Obliquo 2008), Al ritmo dell’assenza (MC Edizioni 2020) ed ora, con Samuele Editore, nella Collana Gialla Oro di Pordenonelegge che pubblica poeti di grande rilievo nel panorama nazionale e internazionale, esce Nel vortice. Il filo.

Due i termini coordinati che costituiscono il titolo, due anche i termini che danno il titolo alla prima sezione: Il custode. Il cardine. Lungo la raccolta, però, «custode» e «cardine» affiorano continuamente – essi stessi o tramite sinonimi – nei significati che solitamente vengono loro riconosciuti, ma anche in alcune funzioni totalmente nuove. La scrittura di Cesare Lievi apre a molteplici possibilità.

Il primo: «Il Custode» è, sì, l’angelo che tra altri compiti ha quello di custodire. Ma chi o cosa custodisce? L’io si interroga sull’essenza di ciò che chiama «angelo, alato, custode, grande ala», una potenza arcana che talvolta si fa viva presenza: «a volte viene con me in pizzeria». Il secondo, «Il cardine», cos’è? Sorgono domande che incalzano senza risposta definitiva. «Il cardine» è sia l’elemento che consente la rotazione dei battenti di una porta o finestra, sia il fondamento – ovvero l’argomento centrale – su cui poggia la ricerca poetica che l’autore sviluppa fin dalla sua prima raccolta, Stella di cenere, dove la Stella remota di cui ci arriva il fulgore, è già cenere. In quest’ultima raccolta, ad essere in luce è il passaggio tra due stadi che avviene su un limite custodito dall’angelo («Sei tu del passaggio il custode?»). Il «cardine» fa sì che luoghi e situazioni solitamente contrapposti possano essere esperiti in consapevolezza: «Luminosi. Scuri. / Visibili. Invisibili. Solitari e popolosi. // Uno denso di vivi, l’altro / di morti. Verso l’interno uno, verso / l’esterno l’altro»

Contemplare la possibilità del manifestarsi dell’angelo è evento fondamentale, è accettare che il mondo dei vivi e dei morti siano connessi, che vita e sogno possano essere intercambiabili e che di essi si possa fare esperienza nel dolore e nella felicità, nella pietà e nella gioia, proprio grazie al «cardine» che sta sul limite di un varco e ne consente l’attraversamento. È l’angelo ad esortare il suo ascoltatore: «lascia libero il passaggio». L’angelo, il garante di questa possibilità, sprona a rischiare.

Poesia che osa sondare l’inspiegabile, dove le cose, contemporaneamente, «sono e non sono», dove è abolita la netta separazione tra il di qui e il di là: «qualcuno è di là e di qua / nello stesso attimo, stessa durata», in un tempo «senza prima // né poi».

Il mistero si fa parola. Qui, dove la cronologia salta, gli eventi non accadono in una successione logica, come emerge in una delle poesie in cui è forzata la sintassi, a dire un futuro che è già passato e deve ancora avvenire, senza soluzione di continuità: «Sarà è stata una nuotata sola», in un presente trascorso e ancora visibile: «Guarda, c’erano dei porti». Il tempo è un tema che torna continuamente nell’opera poetica di Lievi. Qui l’io viene esortato a sentire le diastoli e le sistoli del tempo che ha ancora dentro il passato: «C’è / tutta l’infanzia lì dentro», e si fa profezia, o contiene già il futuro: «Guarda c’è anche // il tremila».

Da dove e verso dove guardare? Dove è il titolo della seconda sezione del libro. Dove può essere la casa, la scuola, lo spazio in cui vivere e crescere protetti; casa è la profonda interiorità. Casa è il luogo in cui tornare, la casa di Gargnano, dove Lievi è nato e dove vive quando non è in giro nel mondo a firmare le sue memorabili regie. Ma non è solo la casa sul lago di Garda, se l’io chiede: «Ma dov’è la casa?». Casa è dove ci si ama, un luogo dove il «noi» è possibile: «siamo / a casa»; casa è «qui / dove respiro, scrivo»: casa è la poesia. Casa e poesia sono il luogo dove la vita si ripensa in un’opera che conserva il ricordo delle lacerazioni e delle gioie. Ora, dopo tante esperienze di vita e di arte, l’io può godere quietamente la «Gioia del trascorrere», nel fluire del tempo verso la fine, con una calda «voglia di esistere», nella consapevolezza che vivere è la «meta» stessa. Sì, perché è «Semplice incanto il vivere» qui, nel regno dei viventi: «Certo due regni: quello dei vivi, / quello dei morti. Di certo staccate // esistenze o non esistenze. Certo / lo stesso vortice, lo stesso canto.» Così nella poesia dal titolo A proposito del cacciatore Gracco, che fa riferimento a quel personaggio di Kafka sul suo battello funebre che ha sbagliato rotta e vagando da secoli ai confini dell’aldilà in cerca di un passaggio, è approdato a Riva del Garda. Questo fa del lago, lo stesso su cui si affaccia la casa di Lievi, un luogo in cui i regni sono due ma sono uniti: da Kafka, che ci fa vagare il suo cacciatore defunto, e da Lievi, che fa sua questa visione, così importante nel suo itinerario poetico, da aver accolto il cacciatore Gracco anche in raccolte precedenti (Altrove qui e Nel tempo), a ribadire che il regno dei vivi e quello dei morti vengono uniti nello «stesso canto».

Pur non avendo alcuna possibilità di lenire il dolore delle perdite, la poesia è forte come la morte perché ha il potere di dare nuova vita ai perduti: come si legge nei versi posti Appendice, «Scrivere una poesia al giorno […/] / Una poesia allontana lo scuro. / E se i pini crescono secchi poi / cadono, la poesia li pietrifica, / dà il sangue.» È di questo «sangue», in questa nuova vita, che persone e cose acquistano un nuovo senso, una nuova durata che possiamo esplorare noi stessi. Servono le parole. Serve la poesia.

 
 
 
 
Scardinata la visione, ridotta
a un campo minimo: ore in una stanza,
a pezzi, il letto disfatto con sogni
che non vengono né vanno, storpiati;
 
tanto lontana la voce che è vano
persino dialogare con se stessi,
grande
(o piccolo) silenzio, grande (o piccolo)
 
disturbo della mente che vorrebbe…
Anche il corpo è scardinato, l’amore.