L’animalizzazione dell’umano – su Culo di tua mamma di Alberto Bertoni


Per chi ha scritto Ho visto perdere Varenne (2006) tra luci e ombre, tra ovazioni assordanti e silenzi abissali, le corse dei cavalli sono valse sia il miracolo di una vittoria impossibile, come quando la speranza nell’incredibile batte la realtà contingente e il suo ingombro razionale, sia il giogo di un vizio pagato caro e lontano dal traguardo. Alberto Bertoni ha appena dato alle stampe Culo di tua mamma. Autobestiario 2013-2022 (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022, collana Gialla Oro), titolo clamoroso che «traduce alla lettera l’americano your Mother’s Ass, nome di cavallo inventato per liberarsi di un seccatore dall’io narrante della poesia Horse fly, composta da Charles Bukowski nel febbraio del 1985», motiva nella nota in chiusura il poeta stesso. Con l’ippodromo di San Siro abbandonato, Il primo giorno di Covid torna anche in queste pagine, superato il Canalchiaro che conclude amaro e fatalista L’isola dei topi (2021).

Dopo lo scoppio della pandemia e il ruolo via via più incerto che hanno ricoperto virologi improvvisati e sedicenti scienziati da social media, nel suo Canalchiaro prosastico Bertoni si definisce «figlio girovago a rischio di un contagio che rimane a tutt’oggi misterioso e ancora privo di orizzonte e di utopia». Nato negli anni ‘50, l’autore appartiene alla generazione che ha subito frotte di utopie in gran parte irrealizzate. E lo ammette fiancheggiato dal ricordo di Stefano Tassinari, con il quale seguì con lo sguardo il volo del condor sulle Ande, «mortifero e maestoso», nell’estate dell’Ottantuno,

convinto che l’unico modo di lottare
nel mio piccolo
di piccolo individuo stritolato
da storia, biologia e denaro
sia stata e sia
prima poesia che azione

Diversamente da chi è partito da atteggiamenti rivoluzionari, di cambiamento totale dell’immaginario per poi adeguarsi alla società del consumo a oltranza, ha inserito tra i versi una sorta di termometro antropologico, collettivo, lontano da inutili solipsismi. Gli incipit dei suoi testi derivano sempre da un aneddoto autobiografico, ambendo a passare da un approccio diretto, da un minuscolo io «detto guidogozzano», a una dimensione inclusiva e relazionale. Secondo Bertoni, che rintraccia i tratti della bestialità in sé e negli altri, la poesia deve tradurre la soggettività dell’individuo: nel chiuso della propria coscienza ciascuno conserva esperienze dell’indicibile e del contraddittorio, esperienze terribilmente verticali che necessitano di una continua traduzione per essere comunicate e condivise. Non a caso, la parola “metafora” deriva dal greco meta [oltre] e phérō [porto], perché per tradurre occorre non soltanto la competenza nei due codici linguistici, ma anche una spiccata propensione immaginativa. La traduzione rimane un gesto creativo e, dunque, di spostamento semantico e lessicale tra gli elementi predefiniti delle lingue a confronto.

Cresciuto nella periferia a sud di Modena, quando ancora i canali esterni alla cinta muraria non erano stati tombati, negli anni ’60, l’autore era solito passeggiare coi nonni sulle sponde del canale Archirola, abituandosi alla vista dei topi tra erbacce e canneti, e all’introiezione dell’animale come l’altro da sé. Orrendo e familiare al contempo, già nella raccolta precedente il piccolo roditore era evocativo della pestilenza, portatore ignaro di un destino nefasto che emerge dalle caditoie con l’oscurità. Al quale, tuttavia, Bertoni contrappone una forza benefica, ossia le tre gatte che hanno vegliato sulle amate dimore e sulle sue sedute pensose. «Amici della scienza e della voluttà, ricercano il silenzio e / l’orrore delle tenebre; l’Erebo li avrebbe presi per funebri / corsieri se mai avesse potuto piegare al servaggio la loro fierezza», scriveva Baudelaire ne Le fleurs du mal. Il gatto è un’entità riflessiva che con gli occhi a fessura scruta il buio e affianca il saggio, o meglio, il percorso dell’individuo verso la saggezza.

Nella sua produzione poetica le presenze animali si sono moltiplicate: in Traversate (2014) Bertoni ha intitolato una sezione Bestiario, citando implicitamente gli otto racconti fantastici di Cortazar (1951) e spesso condivisi con l’amico Tassinari. Parimenti allo scrittore argentino naturalizzato francese, Bertoni non antropomorfizza gli animali, che non simboleggiano vizi o virtù di uomini e donne, né intende sacralizzare il regno della natura alla maniera di Marcoaldi nella nuova edizione di Animali in versi (Einaudi, 2022), bensì riconosce e mette a nudo l’animalizzazione dell’umano. «Tortorelle, passerotti, colombine», e ancora serpi, scimpanzé, crostacei, rettili e formiche diventano persino onirici, rammentando le inquietudini dell’inconscio, i tarli che popolano il dormiveglia. Le gatte dalle penetranti pupille ammaliatrici possono tradire con facilità, ferendo nel frangente di una carezza contropelo, e cozzando a loro volta con la cieca lealtà del pitbull capace di correre a perdifiato dietro un dispotico guinzaglio: se a seguito di un abbandono, difatti, il gatto risulti al più «affamato», il cane sarebbe invece un randagio, un errante senza padrone che «ha paura del futuro».

L’impeto anticipato dal titolo Culo di tua mamma non si esaurisce nella provocazione in copertina, nell’affronto al lettore; non è solo il tentativo di argomentare l’emissione di un “barbarico yawp”, lavico e indistinto, ma un’accurata e premurosa invettiva sociale, con picchi di fervente fermezza contro «la casa di un fascista» qualsiasi, contro

le nefandezze che ogni buon fascista
oggigiorno difende:
vanvere no vax, credo putinista
e un energico evviva
ai molti poliziotti del Wisconsin
capaci di sparare sette colpi
contro zero
al primo malcapitato nero,
meticcio o altro
purché non protestante, anglosassone
e bianco

Bukowski, chiamato in causa sin dall’inizio, ha condannato con versi estremi, persino scandalosi, il pudore quale forma di ipocrisia borghese, quale mera simulazione perbenista dietro cui si celano disuguaglianze e secondi fini, finendo per essere additato ed emarginato da certe cerchie culturali. Bertoni, dal canto suo, assembla un atto di protesta che egli stesso considera tardivo, forse perché estraneo alle sue corde, ma impellente quanto efficace grazie agli accostamenti di immagini che s’innescano a catena, immortalando la decadenza di un’epoca causata dalle sue incongruenze bestiali:

L’assurdo del suo talismano
mi obbliga a pensare
cos’è misericordia oggi
comprendere un disastro
aiutare quel niente ad arginarlo
ma nel caso
preferire il disagio degli eguali
i disperati bianchi, magari
nati anche loro da queste parti
che si tolgono il pane di bocca
per gatti e cani