Contro l’inflessibile precarietà dell’essere – su Apolide di Mary Barbara Tolusso


Logos e soma, verbum e corpus, la parola e il corpo. Sta in equilibrio tra questi due mondi lontanissimi, soltanto in apparenza, la poesia di Mary B. Tolusso.

La parola è abituata a esprimersi per immagini, fascinazioni transitorie, illuminazioni intense e impalpabili. Il corpo si aggrappa a pulsioni concrete, terragne tentazioni, indispensabili necessità. Ma le loro orbite difformi sono destinate a intersecarsi, a entrare in sintonia nei versi, nel ritmo, nel ricordi che diventano nitidi fotogrammi. Nella folgorante capacità poetica di dare voce alla vita che contraddistingue il percorso letterario della scrittrice nata a Pordenone, che vive tra Trieste e Milano.

Da molti anni, ormai, Mary B. Tolusso attraversa la poesia italiana contemporanea con una voce nitida, originale, strutturata, eppure capace di lasciarsi sballottare dalle raffiche della curiosità, dalle sirene dell’inquietudine, dall’assenza di ogni richiamo dogmatico. Nel tempo, sotto gli occhi di chi ama la lirica, sono transitati Cattive maniere (2000), L’inverso ritrovato (2003), Il freddo e il crudele (2012). Ad arricchire il percorso fatto di versi si sono aggiunti, poi, due romanzi: L’imbalsamatrice (2009) e L’esercizio del distacco (2018). Approcci alla scrittura differenti soltanto in parte, che invece vanno a comporre un mosaico polifonico di vie espressive dell’autrice, di cui fa parte anche una corposa attività giornalistica e saggistica.

Adesso Apolide, pubblicato nella collana dello Specchio di Mondadori (pagg. 107, euro 16), si rivela una sorta di nuovissima summa dell’itinerario poetico di Mary B. Tolusso. Sì, perché nelle sei sezioni in cui è diviso il libro, i lettori che hanno seguito attentamente il divenire letterario dell’autrice troveranno tracce liriche già seminate nel passato: alcune poesie de “L’inverso ritrovato”, altre di “Piano regolatore” che stavano ne Il freddo e il crudele. La maggior parte, invece, sono del tutto inedite: da “Come un corpo” a “Apolide”, da “Edipo Re” a “Terapie croniche”.

“Spoglio com’è d’ogni bene, nulla è più concreto / del corpo. Ed era quello l’accordo: spezzare / la ragione, andare pazzi per la gioia, assolvere / la misura del noto”. Sta lì, dentro “tessuti, muscoli, ossa”, il vero senso del vivere. In quel corpo che, troppo spesso, è stato descritto come prigione dell’intelletto, come asfittica gabbia dell’anima. Esorcizzato da una poesia imbalsamata nel suo sarcofago di bellezza (“Che cosa vuoi? Tramonti? / Io mento, imbuco ossa, non esisto”). Da versi infarciti di luoghi comuni, di slogan ripetuti fino alla nausea. Da parole messe assieme per illudere, per consolare, per occultare il senso alle cose: “Tu sei morta, poesia. Si compiono gli anni di Ungaretti / e i reietti di quell’altro, il francese, la mano trema per averli / frugati, / avevo gli occhi pieni e il cuore e il sesso / il tuo debito col mondo – / era aperto. Nulla fu soltanto per amore ma io sono più volgare per morire, / tu sola morirai. Pestavi l’alba e lo facevi / senza alcun riguardo. Se ti dovessi incontrare io tiro fuori / la pistola e sparo. Ferro, mercurio, Venere, piombo. Padri”.

L’apolide, a cui Mary B. Tolusso fa riferimento nel titolo del suo libro, non è soltanto chi non ha patria, fissa dimora, centro di gravità permanente (“Non ho colpa se mi hanno dato un nome”). Ma allarga la sua accoglienza a chi sa affrontare la quotidianità con stupore, rabbia e coscienza della precarietà. Senza paura di navigare al largo da dogmi, certezze, teoremi a cui fare riferimento, perché “la verità è una cosa indecente”. Visto che i conti con la realtà si tende sempre a rinviarli: “La notte fila liscia tranne quelle sere / che si cede al ricordo che si dovrà / morire su un letto come questo”.

Il corpo, allora, diventa il metronomo che scandisce, attraverso le parole, il ritmo dell’universo apolide di Mary B. Tolusso. C’è qualcosa di epicureo nel suo guardare e descrivere la realtà dell’essere con passione e disincanto. Senza mai lasciarsi cullare da facili illusioni, perché è “meglio liberarsi con grazia, credimi / nella felicità casuale degli atomi”. Visto che, in fondo, l’essere qui e ora è un rincorrersi di prosaiche certezze e volatili speranze, dove nella “tasca destra del soprabito nero”, quello indossato da “un corpo in cornice con la tua faccia austera”, non si troveranno mai elevati pensieri, sogni, astruse farneticazioni. Ma “gli scontrini del negozio /, quello dei gatti e due vecchie sigarette / rubate alla tua bocca”.

Ed è ancora il corpo che trova il coraggio di affermare: “La cosa oscena, / è la parola che manca”. Dal momento che, liberando il nostro vivere dall’irresistibile tentazione di costellarlo con luminosi tramonti, stati d’animo estatici, zuccherosi amori, la poesia trova il coraggio di fare a spallate con la realtà: “Seguono una serie / di tradimenti. Adolescenza addio. Non cercarmi”. Infatti, le storie che la vita propone sono lì, pronte a valicare i confini della normalità dettata da una società schiava dei suoi risibili moralismi: “Che vuoi che ti dica sotto / la coperta ruvida di un albergo a ore?”.

“La vita mica è una questione di cuore”, scrive Mary B. Tolusso. Che, nel suo Apolide tratta l’amore, il desiderio, lo scambio di dare e avere all’interno di un rapporto seduttivo, con la stessa libertà di chi non si aggrappa mai a un luogo fisso, a una casa, a una certezza. Ma preferisce seguire le tracce vagabonde di uno spirito curioso, che canta la sua visione del mondo in queste pagine. Dove la poesia si concede anche il sorriso, lo sberleffo, quando l’autrice gioca con le proprie origini familiari (“La mia è un’antica schiatta… È un vero peccato non avere / a disposizione un XII secolo”), o con la cultura classica (“Alla fine l’ho visto, Pompeo è fuggito, ma Enobarbo è morto / in battaglia mio caro Sallustio /. Oltre ogni ragione, e / nonostante i pochi / uomini dalla mia ho l’acume e l’inganno, tu questo lo puoi / cantare oh Catullo”).

Nei versi di Mary B. Tolusso finiscono per riverberarsi anche i ricordi di tante amate pagine letterarie, a partire da quelle della Recherche di Marcel Proust, a cui sono dedicate le poesie della sezione “Inverso ritrovato”. Per continuare con le citazioni di Giovanni Raboni, degli autori della tragedia greca, di Maurizio Cucchi, di uno dei gruppi musicali contemporanei più vicini alla voce della lirica: i Baustelle. Autori, tra l’altro, di una strepitosa canzone omaggio a Charles Baudelaire, inserita nel loro disco “Amen” del 2008.

Le parole che raccontano il viaggio apolide del corpo e della mente diventano, nella struttura melodica dei versi, l’unica via da seguire per trovare un senso. Instabile, precario, come capita davanti all’improvvisa, irragionevole, straziante assenza di chi si è amato davvero, gatto o umano che sia: “La vita è poca e tu scomparso eri un luogo intero”. Ben sapendo che i versi e il calore delle passioni sono soltanto un tiepido arzigogolo. Un incantesimo mentale contro l’inflessibile precarietà dell’essere: “Qualunque cosa io dica è un copione / che non conosco” .

 
 
 
 
La gioia di sapermi al riparo, ma non fu riparo allora
la nostra vocazione di baciarci sotto
le lenzuola. Di giorno ti aggiri davanti
al mondo imbecille e pensi e muori.
La gente parla, spiega, quello che fa il pittore in via Boltraffio,
l’altro che ha messo in piedi una cantina, c’è anche chi ha fatto
la galera, chi ha tentato il suicidio mentre cade
la sera ti ucciderei io se potessi, ti caverei gli occhi
sul letto, l’imperfezione, il difetto
di quella stanchezza metrica d’infanzia
non temere… non durare…
 
A volte penso che l’amore assomigli a quelle cose,
che deve assomigliare a qualcosa che muore.