In dialogo: Pietro Russo ed Erica Donzella


 

Pietro Russo: Intorno alla primavera del 2015 ho scritto la mia prima poesia in dialetto. A quell’altezza il mio libro di poesie in lingua, A questa vertigine, che sarebbe uscito circa un anno dopo, era già pronto per la pubblicazione. Allo stesso tempo sentivo però esaurita quella possibilità espressiva, e non mi riferisco tanto al fisiologico estinguersi della vena creativa nel momento in cui un lavoro giunge al termine, quanto alla coscienza che l’Italiano (inteso qui, sia chiaro, come lingua di poesia) era diventato, per me, una lingua dissanguata e disincarnata; una lingua ancora comunicativa, certo, ma non in grado di comunicare l’evento della poesia. Da qui la mia plaquette in dialetto, Eppuru i stiddi fanu scrusciu, che ha visto la luce nel 2022 per i tipi de “Le Farfalle”, progetto editoriale del compianto amico e maestro Angelo Scandurra.

Leggendo il tuo “coetaneo” Scrusciu (Samuele Editore – PordenoneLegge 2022), cara Erica, oltre alla spia lessicale in entrambi i titoli che parrebbe accomunare i nostri rispettivi libri in un destino di «rumore/baccano» del mondo, mi è sembrato di scorgere lo stesso percorso – dalla lingua al dialetto – declinato proprio nei termini di «una vena di sangue sepolta» (Scrusciu, p. 36) che, dopo la prima sezione in italiano, decide di risorgere come un’esplosione prepotente nella seconda parte. Evidentemente anche per te il ritorno al sangue e alla carne ha il suono della lingua siciliana; ma quello che ti (e mi) chiedo è: quali sono le ragioni di questa urgenza dialettale, oggi?

Erica Donzella: Quando ho letto il tuo titolo – Eppuru i stiddi fanu scrusciu – ho pensato che non fosse un caso che entrambi avessimo avuto la necessità di denominare un’intestazione con la lingua che ci portiamo dentro, quella vera dei sentimenti. Ciò che poi mi ha stupita è stato leggere la tua raccolta e sentire che ogni cosa intorno – la città, il vento, il cielo e le stelle – tornassero a una dimensione ancestrale più forte, più legata alla forza della parola. Quello che ho sentito nella tua poesia è un frastuono di elementi che si rompono e che nella loro fragilità continuano a fare rumore, baccano. È anche vero che il mio scrusciu dialettale è diverso dal tuo: io l’ho confinato in una sezione (Chiafura), mentre il tuo permea un’intera raccolta. Credo che il rumore di cui io e te scriviamo sia legato a doppia mandata dal desiderio bestiale di dire le cose come stanno e di affermarle con un tono di voce profondo, che vive sotterrato sotto i cumuli di una lingua che muta di continuo e rispecchia al tempo stesso una fragilità. Insomma Pietro, ci sono cose che si possono dire e scrivere soltanto in alcuni modi e con certe intenzioni. I tuoi due versi a pagina 34 per esempio: senti chi buddellu / ri ossa ri ugna ri muzzicuna (senti che bordello/ di ossa di unghie di morsi), rende perfettamente anche in italiano ma manca il significato profondo della carnalità e perde il suo suono. L’italiano non può significare ogni cosa, non trovi? Ma c’è un altro elemento che mi incuriosisce: secondo te perché abbiamo avuto bisogno di uscire dalla dimensione del silenzio?

Pietro Russo: Prima di rispondere a quest’ultima domanda, vorrei soffermarmi sulla prima questione che, onestamente, mi mette in crisi. Cioè, sono d’accordo sull’unicità, anzi sul carattere evenemenziale del modo e dell’intenzione in cui qualcosa viene detta, ma al tempo stesso, per un mio retaggio razionalista, faccio fatica ad affermare che ci sono zone dell’esperienza umana che sono precluse alla significazione dell’Italiano. I limiti, semmai, dovrebbero essere quelli insiti nel linguaggio verbale, poco importa che sia una lingua istituzionalizzata o un dialetto o uno slang o altro: “Trasumanar significar per verba / non si porìa”. Tu citi, come esempio di “eccezionalità” del dialetto, quei miei versi; io potrei fare altrettanto (e non già per ricambiare la cortesia, bensì per ribadire il concetto) con il tuo verso «E m’arrincigghiu comu nu scursuni» (“E mi ritiro come un serpente”: p. 63) che mette bene in luce lo scarto semantico tra dialetto e lingua. Io, da siciliano, posso “vedere” il serpente/scursuni arrincigghiarisi, ma un lettore marchigiano, o ligure, può fare altrettanto? E ti sembra razionale (o democratico?) che una persona di Ancona o di La Spezia debba quindi limitarsi alla forma – per noi siculi senz’altro più debole e opaca – del “ritirarsi” della serpe? A questo punto, io credo, la tua domanda sul silenzio acquista un senso ulteriore. Provo a scorgere una possibile via d’uscita a questo dilemma in alcuni tuoi versi ‘italiani’ di Scrusciu: «Dov’è mancato il corpo / è stata la mente / a comandare la vita» (p. 12). Penso seriamente, infatti, che la nostra lingua nazionale, usurata dalla comunicazione quotidiana e quindi dai mezzi che rendono possibile questi scambi verbali, si sia sempre di più allontanata dalle ragioni del corpo, della terra, della nuda materia-madre, per abbracciare alcune istanze che – come scrivi molto bene – vorrebbero comandare la vita, cioè fissarla e costringerla verso una direzione che per natura non le appartiene. È questo snaturamento della vita che conduce all’afasia, e di conseguenza alla nostra urgenza di cercare, nella lingua della poesia, una fonte perenne di “scrusciu” che non sia solo un “rumore” di sottofondo, ma un baccano-concerto, un coro, una polifonia – anche stonata e dissonante – di voci umane. E in fondo non sembra anche a te che la nostra comune scelta del dialetto sia una strada per rimarcare l’alterità della lingua della poesia?

Erica Donzella: è anche un modo, se vuoi, di immettere nel sistema suoni diversi. Se vale lo slang e il neologismo, l’inglesismo e il “corsivo” e tutto concorre all’espressione e alla significazione allora anche l’arrincigghiarsi può valere un azzardo, e non me ne vogliano i marchigiani o i liguri (o chiunque non parli siciliano). Mi viene in mente Sereni, negli anni in cui dirigeva la collana Lo Specchio per Mondadori: «Io penso che non ha più senso lo scrivere versi se non riprende la sua funzione e i suoi pigli inventivi, se non decide di infischiarsi dell’accusa di voler fare poesia, se non teme l’irrisione che ne deriva, cioè se non torna a puntare sull’invenzione». Ed è una citazione che sposo se ciò significa però dire la verità coi contenuti. Tu parli di voci umane ed è questo il nodo: abbiamo cosa dire, scrivere, “poetare”, o ci fermiamo allo stile? Io e te scriviamo di baccano e caos, di frantumazione e cieli che non bastano a consolarci. Stiamo ancora scrivendo soltanto di noi stessi o forse riusciamo ad avvicinarci all’universalità?

Pietro Russo: Mi sembra di capire, Erica, che condividiamo lo stesso modo di vedere e, se mi permetti, soprattutto di agire la poesia. Abbiamo a disposizione uno “strumento umano” – per dirla anch’io con Sereni – attraverso il quale impariamo a stare al mondo. Come? Aumentando la nostra conoscenza di noi stessi e della realtà circostante. In questo senso una lingua di poesia (cioè una lingua a servizio dell’evento che scatena la creazione verbale) è un sismografo che registra quella che tu definisci “l’universalità” della scrittura, che poi sarebbe la soglia dove noi, in quanto individui portatori di esperienze, incontriamo gli altri. Ci sono alcuni testi in Eppuru i stiddi fanu scrusciu in cui mi confronto con storie che, a un certo punto, entrano di prepotenza nella mia vita; penso in modo particolare ai testi di ispirazione “migrante”, se così posso dire. Ecco, in questo caso, la scrittura poetica ha rappresentato per me il mezzo, non dico per avvicinarmi all’universale, bensì per riconoscermi io stesso, grazie ad un altro, come universo, e quindi in ultimo per poter rivolgere a questa persona il mio ringraziamento: «tu si comu nasciri chiù forti» (“tu sei come nascere più forte”, p. 32). E mi sembra che anche nel tuo libro sia presente questa chiamata ad “affondare nella vita” (Scrusciu, p. 17), vale a dire a cercare un fondamento di fiducia con un altro essere affine. Lo scrusciu è una faccenda collettiva, anzi direi proprio comunitaria, non credi?

Erica Donzella: Sì, assolutamente. Io – e te, e chi scrive come atto riconosciuto e legittimo dello stare al mondo – ho bisogno di un “rumore” comunitario, condiviso. L’immagine del sismografo è molto pertinente: in questa vertigine la rottura è ciò che possiamo raccontare. Cosa fa un poeta? Indaga coi versi, accende una luce sulle ferite, impressiona un fatto che deve risuonare. Altrimenti non c’è poesia, e in questo senso tutto quello che ci siamo “scritti” sin qui rispetto alla lingua poetica è strumento. Spero soltanto che tra una crepa e l’altra rimanga una pulsione di verità, l’esigenza di raccontare per capire. E questa speranza può essere salvifica solo se scriviamo col vero e il dubbio.

Pietro Russo: Mi sembra il migliore augurio che si possa fare, a una persona prima ancora che a un poeta-scrittore-artista; stare “col vero e il dubbio”, come dici tu, in un tra che è soglia e fessurazione, luogo di una identità aperta e di discontinuità. «Io sono aria che ha vertigine / di terra ferma», scrivi in Scrusciu (p. 47). Bene, io credo davvero che in questo spazio liminare tra la terra e il cielo ci si possa incontrare e, perché no, riconoscersi in una comunità. E a questo punto, se mi permetti, vorrei chiudere con alcuni versi di Eppuru i stiddi in cui l’io diventa noi:

nuautri non ni canuscemu
ni stamu ncontrannu ccà p’a prima vota,
non ni canuscemu ma vogghiu pinsari ca tu
a n’autra banna
si vivu com’a mia
e macari senz’aceddi e nuuli e suli
nta na città ca chianci senza funnu i morti sò
nuautri semu frati,
bastaddi ca chianciunu e fanu l’amuri,
fummiculi ca si ponu scannari
fummiculi comu semu nuautri

(noi non ci conosciamo / ci stiamo incontrando qui per la prima volta, / non ci conosciamo ma voglio pensare che tu / da un’altra parte / sei vivo come me / e anche senza uccelli e nuvole e sole / in una città che piange senza fondo i suoi morti / noi siamo fratelli, / bastardi che piangono e fanno l’amore, / formiche che possono scannarsi / formiche come siamo noi)

Erica Donzella: A proposito di auguri e speranze, nel ringraziarti per questo viaggio dentro i nostri versi, ti lascio anche io un componimento da Scrusciu (p. 51):

Imploro la spaccatura
una frattura di parola
che apra l’abisso.
Questa è la fine del male.
Anche la lava si fa pietra
stanca nelle giunture delle ossa.