Verremo tutti da lontano – su Il libro della lettera arrivata, e mai partita di Mario Santagostini


La nostra vita si interseca con quella di altre vite e ciò che è accaduto si mescola con ciò che sarebbe potuto accadere. In qualche modo la realtà ha sempre una dimensione al congiuntivo. Ecco allora farsi problematico il concetto di “reale”, poiché dentro e fuori divengono permeabili, così come l’evento e la possibilità, sia quando il nostro sguardo si volge indietro sia quando percepisce e testimonia il presente. Reale è ciò che accade nella mente.

In questo libro Santagostini cerca di creare un luogo dove la biografia diviene eterografia, composta da memoria, realtà e possibilità, capaci di estendere il tempo del sé, il tempo della vita, fino a spazi e tempi sognati, immaginati, raccontati, rivissuti. D’altra parte, l’immagine delle rane nel lavabo, morte o quasi (p. 25), dà modo di criticare la mancanza di coraggio dell’universo, che non le fa vivere due volte. In che modo questo si realizza? E quali conseguenze ha sulla voce che lo esprime? Innanzitutto essa si sfalda dall’interno, mentre cerca di ricostruirsi e ricordare, sempre pronta a ritrattare, aggiungere, indugiare, aprendosi al dubbio (es. nelle poesie intitolate Finestra, che in genere partono da un luogo per aprirsi a riflessioni sul tempo, o in quelle intitolate Coda, Addenda, Variante) e alla possibilità. I piani temporali, anche molto distanti nel tempo, comunicano per sentire la vita che è stata tante vite. Per esempio in A se stesso, anni fa (p. 11) la voce si rivolge a un sé lontano e la poesia si in-compie in un lungo arco di tempo (1972-2018).

La grande metafora che incarna questa esistenza dilatata è quella del partire e arrivare (con le varianti di andare e tornare), che spazializza il tempo della mente, rendendo appunto porosi i piani di realtà. Da un lato questo si può ricondurre a una certa lombardità: le presenze evocate si stendono sugli squarci di paesaggio urbano (es. piazza Tirana, Porta Venezia, Piazzale Baracca), i cortili e i muri di una Milano guardata, camminata e sognata dal presente al dopoguerra (p. 57), addirittura nel sogno del fascismo che finiva (p. 59; simile a certe giornate di oggi); la Milano di Sironi (p. 97), quella di Giandante X, al secolo Dante Pescò (p. 60, 75-76), o quella dei giovani descritti da Penna (in una prosa del 1938), in cui la voce immagina il proprio padre (p. 58).

Questi movimenti spingono lo sguardo verso un dove − un limite − che non è dato a vedersi (talvolta si accompagna a uno spazio avvolto dalla nebbia) e non si può misurare: non si arriva, non si sa se si arriva a una fine o quante volte ci si arriva. Inoltre proprio da quella lontananza arrivano, cioè ritornano, scene e figure, notizie che fanno luce su altre vite e, di rimbalzo, sulla propria. Allora dove stavamo prima? Dove stiamo davvero? Chi non c’è continua a esserci? I morti vanno via per sempre? Chi li aspetta li trova? (p. 22). Una possibile posta è che verremo tutti da lontano, un giorno (p. 40). Proprio il succedersi dei morti (a caso) e delle ombre (si veda la poesia sulle ombre sui muri, le vite e la prosa come gioco linguistico, p. 47) è un altro forte nucleo di riflessione dell’opera: tornare è risorgere (p. 14), i sogni rappresentano i luoghi in cui l’andare e il tornare si mescolano (p. 20), il mondo vero è di chi torna, non di chi resta (p. 88), ciò che arriva (le notizie) da lontano sembra vero, ma né io né nessuno è mai riuscito a essere veramente lontano (p. 147). Chi parte e chi torna, i vivi (i vivi sono vicini alle ombre, p. 93) e i morti, non sono mai arrivati, poiché prima o poi invertono il loro movimento (p. 47). E ci sono degli anni, / dove si arriva in pochi. E c’è un anno, dove / nessuno arriva? Non lo so (p. 26). E chi torna da cosa è restituito? Come può tornare? Quale opera può permetterlo? Non la poesia (O non adesso. / Ma ha a che fare con me.), non le parole, la polvere verbale che vive e muore in noi.

La lontananza dai vivi è inoltre una delle caratteristiche (insieme alla luce eccessiva, “quasi da spreco”) delle visioni dell’aldilà prima di Dante (Giacomino da Verona e Bonvesin de la Ripa): E certe ombre l’aspettano, certe non aspettano più. E nessuno sa ancora vedere quali sono, le ombre che aspettano, quelle che non aspettano. Forse, l’ombra quando si allunga sarà sta già più vicina alla vita. Effetto del crepuscolo, la vita (p. 43).

Questi pensieri investono la stessa memoria familiare, come nel caso di Angiolo Santagostini (p. 31), le cui notizie arrivano non si sa da dove. D’altra parte, delle storie non è mai tutto vero (p. 35) e per raccontare una vita bisogna prestare attenzione a cosa non hanno fatto, chi non sono mai stati. E dove non sono mai passati (p. 35), come se la vita, scorrendo in negativo, fosse fatta di possibilità incompiute. Del resto, la possibilità nasce anche dal negare il reale guardato: così il dritto e il rovescio di una scena si animano e vivono nello stesso tempo.

Oltre a questo tessuto di metafore, sono le cesure (dentro una sintassi fortemente paratattica) a dar corpo all’entrare dubbioso in sé, a smorzare e enfatizzare allo stesso tempo l’assertività di un pensiero poetante che inciampa nel ragionare. Dagli inciampi interni del verso emergono ipotesi e probabilità. Le cesure si legano alle antitesi (gente perduta, e ritrovata; E tornava, chi se n’era andato; Chi dimentica, un tempo ricordava, p. 17; chi manca è già tornato, p. 28) e alle negazioni, in un continuo ritrattare (e rinviare) il punto di arrivo (Dove chi è arrivato tra noi, / chi non è arrivato, / si parlano a una quarta, ariosa / persona plurale, p. 17; E non so più chi è passato, / chi non è passato, p. 28). Da notare anche l’uso frequente della disgiunzione “o” :[…] è già arrivato, o sta arrivando. / E non è una strada. / Perduta, o non perduta. Non ancora, p. 21; O soltanto nella nebbia. / O la strada che porta / ai cortili dove nessuno è arrivato, p. 26; Anche due, tre volte. / Anche quelle mai arrivate fino a qui, / o non ancora. / O già arrivate due, tre volte. // Come la mia? Forse, p. 36). Nella parte finale il movimento sospeso e la lontananza che avvera il nostro consistere si legano agli ultimi momenti di vita del padre, alle sue contrazioni terminali (pp. 128, 129, 130) simili a quelle di una macchina che si riassembla per muoversi ancora, per non muoversi. Viene da pensare ai debiti, a ciò che provenendo dal già stato può tornare a parlarci, ampliando i confini del nostro sguardo.

 
 
 
 
– Un giorno, spariranno.
E basta un viso appena tirato,
a volte una postura
per capire dove: un angolo cieco in piazza Tirana,
o soltanto della nebbia.
O la strada che porta
ai cortili dove nessuno è mai arrivato.
Dicono – ce ne sono tanti, a Milano, di quei cortili.
E ci sono degli anni,
dove si arriva in pochi. E c’è un anno, dove
nessuno arriva? Non lo so.
Qui, sto soltanto parlando di ragazze amate,
o non amate.
E di me, che le ho perdute.
 
A te che mi conosci da anni: so che ti sembra strano, e lo
è. Eppure, così è stato il mio primo pensiero d’amore.