In dialogo con Massimo Marino su Giuliano Scabia


 

Intervista a Massimo Marino su Il poeta d’oro. Il gran teatro immaginario di Giuliano Scabia (La Casa Usher, 2022)

 

E lui:
Solo la morte ovunque fiorisce:
il divorar la vita qui dentro mai finisce!

E io:
L’hai detto, cane, non finisce
perché la vita dalla morte rifiorisce.
(G. Scabia, Canto del trionfo sulla morte)

 

Il documentato racconto che Massimo Marino ci dona delle opere e del pensiero di Giuliano Scabia (morto nel 2021 a 86 anni) è molto prezioso. Non è solo un libro-tributo e nemmeno un saggio critico, non è memoriale nostalgico o pura biografia. È un lavoro di scavo amorevole nella lunga creazione di uno tra i più luminosi poeti del nostro tempo, che nell’attraversare gli oltre cinquant’anni di esperimenti lascia testimonianza di quanto irregolare, libero e fondamentale sia stato l’operare di Giuliano. Sfuggendo alle etichette, ha insegnato a intere generazioni a fare poesia oltre la pagina, animare teatro fuori dal teatro, raccontare creando mondi collettivi.

Scabia è per molti legato innanzi tutto al teatro, che ha modellato secondo un suo procedere fantastico e votato alla relazione, rigorosissimo nel suo costruire alfabeti e mondi immaginari, con esiti sorprendenti e innovativi nella scena italiana. Celebri le esperienze nel manicomio diretto da Basaglia, i lavori in fabbrica per Luigi Nono, le innumerevoli passeggiate poetiche e teatrali che hanno iniziato un vero e proprio filone che negli ultimi anni è prolificato ovunque.

Ma questo libro, come può confermare chiunque conoscesse Giuliano Scabia, pone al centro di tutto la poesia. Una poesia non chiusa in circuiti accademici o circoli editoriali, bensì vissuta come un palpito, un centro pulsante da proteggere e liberare che dà via (e forse senso?) al tutto. Partiamo da qui.

 

Il libro fin dal titolo sottolinea la predominanza dello Scabia-poeta sullo Scabia-teatrante. Il primo capitolo titola poi Il poeta albero e una signora impressionante, la poesia. Che poeta era Giuliano, e come mai a tuo avviso non viene, con alcune eccezioni, solitamente annoverato tra i fondamentali, mentre lo si cita quale maestro del teatro?

Giuliano è poeta fin da ragazzo. I faldoni che raccolgono i lavori della sua vita, più di quattrocento, conservati nel suo studio di via delle Conce a Firenze, iniziano con versi vergati su fogli protocollo, foglietti, pagine di quaderno, fin dagli anni Cinquanta. Quando incontra Luigi Nono, lavorando per Diario italiano, un diario in poesia dello sfruttamento e dell’alienazione nell’Italia del boom economico, scopre varie cose: come la poesia possa diventare trascrizione (non meccanica) delle contraddizioni che viviamo, interagire con la realtà, per trasformarla, per trasfigurarla, per farla pensare diversa; capisce, inoltre, come la poesia possa diventare azione, incontro, relazione, mai limitata nella pagina ma affidata alla voce, alla musica, allo spazio, al corpo. Da allora continuerà una ricerca costante sulla poesia come lingua e piede del tempo che attraversiamo e come modo per leggere ed esprimere il presente, proiettandolo nell’archetipo, nella storia, nel flusso naturale delle cose.

È più noto come teatrante – secondo me – perché le azioni realizzate a partire dagli anni Sessanta si sono collocate in un contesto di rinnovamento forte del teatro, inventando varie cose, il teatro a partecipazione, l’aniamazione tearale, l’uso del teatro come ricerca profondo dentro il mondo e dentro sé stessi. Hanno avuto, quelle azioni, una carica utopica dirompente, più visibile del lavoro minuto, quotidiano direi, sulla lingua e sulla poesia. Che poi il nostro sistema delle lettere non sia in grado di riconoscere gli irregolari, è cosa fin troppo nota.

 

Un testo che mi pare importante nella produzione di Scabia è Il canto del mormorio, un cercare di cogliere nelle cose del mondo quella voce costante, appena udibile, che sussurra l’eco dell’indicibile, riverberando tutta l’eccedenza dell’universo nel qui-e-ora. Leggendo tutti i poemi di Giuliano, che idea ti sei fatto di questo mormorio, come ha saputo coglierlo secondo te?

Il canto del mormorio è un’operina di auguri, di quelle che creava ogni anno e portava in luoghi segreti e in case di amici per annunciare il nuovo anno. È pieno, come altri momenti della sua opera, di suggestioni scientifiche, in questo caso dell’idea che il Big Bang non sia stato uno schianto, un’esplosione, ma un mormorio.

Il mormorio per lui, però, è soprattutto cogliere il brulicare infinitesimale della vita che sorge, della natura che si rivela, dell’essere umano che incontra l’altro essere umano. È desiderio di relazione profonda, di affinità elettiva da scoprire con le cose e gli esseri. È uno stare sempre in levare, in ascoltare, mai in battere, in affermare.

 

Un aspetto centrale di ogni opera, sia teatrale, che poetica, che pittorica di Giuliano è la relazione. Come scrivi nel capitolo Della poesia (nel teatro) il tremito: “Poesia come scavo di radici, come magica didattica che cerca l’essenza delle cose. Come formatrice di civiltà, intorno al fuoco, a ballare, a raccontare, a trasformare passaggi necessari alla vita della comunità in figure, simboli, narrazioni, in un mondo in cui gli dèi, come le attività, le emozioni, gli impulsi, le profondità umane sono tanti”. Ritieni che questa visione trovi spazio oggi? Pensi possa dare indicazione per un diverso fare comune?

Ricordo un motto che Giuliano ha più volte ribadito, una frase dello scrittore polacco Witold Gombrowicz: “Coloro insieme ai quali canti mutano il tuo canto”.

Oggi, evidentemente, questa visione ha poco credito: molti affermano, propongono, dicono, ribadiscono; pochi ascoltano, cercano di intrecciare legami profondi con l’altro e pochi praticano quella lingua più propria della poesia che è cucire il proprio io col mondo. Ma questa è la strada che lui ci ha indicato.

 

Affidarsi alle poesie-favole, alle fiabe, alle parole luminose, ai canti e agli incanti, alle filastrocche, al carnevalesco, è per molti indice di ingenuità e disimpegno. Cosa ne pensi, in riferimento alla lunga opera di Scabia?

Penso che Scabia sia arrivato a una voluta ingenutià, che definirei meglio come un incanto favolistico, attraverso un lungo e raffinato percorso intellettuale, fisico, di sensibilità. Formatosi come filosofo, il suo teatro degli anni Sessanta e Settanta, partendo da Brecht, esplora i continenti di varie scienze (antropologia, sociologia, pedagogia, linguistica) e quelli della politica e dell’ideologia, per cercare di approdare a qualche utilizzabile utopia. Nei cicli delle grandi favole, come in quelli dei canti e degli incanti, come nella sua attività pedagogica all’università, pure quella basata sull’ascolto degli immaginari degli studenti, riscontriamo un continuo processo di decantazione. Egli cerca l’essenziale, e lo illumina con l’altra lingua, più rivelatrice, del gioco, dell’immaginario, con uno sguardo bambino capace di mettere sottosopra le concezioni cristallizzate e di reinventare, con una lettura più realistica e più fantastica, il mondo. Il bambino, l’ingenuo, il gioco, la favola sono per lui grandi scoperte e faticose conquiste sulla strada della grazia. Il suo preteso disimpegno è un modo per penetrare più a fondo la realtà, purificandola dell’ideologia e di ogni altro carattere caduco, per renderla capace di aprire qualche misteriosa porta verso nuovi territori.

 

Il libro si chiude con la speranza che possa fungere da perno per facilitare la pubblicazione e curatela di molti degli scritti di Scabia (fuori catalogo, ancora inediti, alcuni introvabili). Quale pensi possa essere il testimone da raccogliere, la direzione da approfondire (e magari, scabianamente, rivoluzionare) a partire dalle opere, le azioni e gli insegnamenti del poeta d’oro?

Spero innanzitutto che la Fondazione Giuliano Scabia, creata a Firenze dai parenti più stretti di Giuliano, trovi i mezzi per conservare, gestire, aprire, far vivere il grande patrimonio artistico e intellettuale che ha lasciato, il suo archivio e il suo laboratorio. La sua opera a un certo punto si è collocata nei margini della cultura italiana, probilmente per scelta dello stesso Giuliano di allontanamento da un sistema eminentemente commerciale e mediatico, per lavorare solo a contatto con situazioni calde, interessanti. Noi oggi abbiamo bisogno che questa opera creativa sia divulgata come controveleno a una società sempre più distratta, economicista, degradata. Credo sia necessario che venga conosciuta attraverso mostre, pubblicazioni di testi inediti, riedizione di opere già apparse a stampa, magari riunite per ambiti omogenei, il teatro, i diversi cicli poetici e di romanzi, gli scritti teorici, le azioni nella società. Spero che ciò avvenga mantenendo la ‘leggerezza’ profonda di Giuliano, quella cui ho cercato di guardare nello scrivere il mio libro.