Quando l’ibrido e il minore non sono una colpa – Antonella Sbuelz


 

È probabilmente nell’autunno del 1941 che Pierpaolo Pasolini scopre di avere a cuore e nel cuore il friulano parlato a Casarsa. E Poesie a Casarsa si intitoleranno i suoi primi versi che, pubblicati nel 1942, verranno subito notati da Gianfranco Contini, da Alfonso Gatto e dal critico Antonio Russi. Per il giovanissimo Pierpaolo l’utilizzo del friulano sembra un impulso affettivo e al tempo stesso una scelta intellettuale estremamente consapevole. Pasolini pare infatti cogliere – istintivamente? – tutta la carica eversiva di una lingua minoritaria osservata con sospetto dal nazionalismo fascista, strumentalizzata talvolta in funzione antislava, tendenzialmente osteggiata e repressa. Non scomodiamo le teorie relative all’unità ladina espresse da Graziadio Isaia Ascoli e non addentriamoci troppo nell’originaria matrice romanza della forma espressiva frequentata da un Pierpaolo neppure ventenne nel suo primo approccio alla poesia. Limitiamoci a ricordare l’ovvio: come ogni lingua di confine, il friulano si nutre di ibridismi, di prestiti, di apporti periferici, di contaminazioni lessicali.

Il friulano è espressione di una regione dalle identità culturali e linguistiche multiple, che vive di confronti e di scambi con minoranze slavofone e germanofone. Ora: cosa c’era di più sospetto che un’identità ibrida, nutrita di apporti stranieri, agli occhi di ideologie che ambivano ideologicamente a presunte purezze razziali ed etniche, dunque anche culturali e linguistiche? L’assimilazione culturale perseguita dal nazionalismo fascista non passava solo attraverso l’italianizzazione forzata imposta alla minoranze di intere aree geografiche – basti pensare al Canal del Ferro –, o ai toponimi locali, o ai cognomi dal suono sospetto e di chiara matrice straniera ( per inciso: ho sempre ritenuto un piccolo miracolo che il mio cognome sia sopravvissuto illeso a una simile operazione di brutale purificazione antroponimica).

L’aspirazione all’assimilazione culturale delle regioni di confine – che includevano le terre orgogliosamente e recentemente irredente – passava anche, o forse soprattutto, attraverso l’italianizzazione della lingua usata per le relazioni quotidiane. E per l’espressione del sè. Il giovanissimo Pierpaolo lo intuisce. Lo percepisce. Lo annusa. Lo legge e lo sperimenta nella piccola comunità di Casarsa, terra dell’amatissima madre Susanna. E con istintiva, ferma consapevolezza decide di usare il friulano come corpo espressivo di resistenza dal basso a un’omologazione-dominanza culturale che è innanzitutto omologazione-dominanza linguistica, perchè nei regimi dittatoriali spetta sempre alla lingua fare il lavoro sporco che poi verrà condotto sul pensiero, per renderlo unico e asservito. L’uso di una lingua minore sembra dunque far vacillare il monopolio espressivo della lingua dominante, dichiarando con fierezza che minoritario e ibrido non sono una colpa. Ma non è tutto. La scelta linguistica di Pierpaolo Pasolini si coniuga anche all’intenzione dirompente espressa dalla scelta contenutistica di alcune sue opere.

Pensiamo all’opera teatrale I Turcs tal Friùl, che Pasolini – in una lettera a D’aronco – definisce la sua opera in friulano più riuscita. Il testo si focalizza, com’è noto, sull’ultima e più brutale di una serie di invasioni e saccheggi che devastarono il Friuli e la Venezia Giulia corso del XV e del XVI secolo. Ora: in quanti conoscevano questa storia, che pure violentò un territorio intero e causò un numero incalcolabile di vittime? Quanti sapevano, quando Pasolini si dedicò ai Turcs tal Friul, che dal 1415 ai primi del Cinquecento a nord est si verificarono nove incursioni destinate ad annientare interi centri abitati? Quello che intendo dire è questo: non solo la geografia, ma la storia stessa delle regioni di confine sembra talvolta destinata alla marginalità, se non all’invisibilità.

Spesso domina la versione di una storia centripeta: solo quando il centro viene colpito dal dramma pare che il trauma e il dolore subiti meritino di entrare negli archivi, nella memoria e nell’immaginario collettivi. Pasolini, già nel 1944, sembra invece aver colto l’importanza e la necessità anche etica di rievocare le storie sommesse, marginali, periferiche: le microstorie destinate troppo spesso a restare mute. E in tal modo riesce forse a far vacillare anche la versione dominante della grande storia collettiva e la sua rievocazione monopolista dei fatti. È forse così che il Pierpaolo Pasolini appena ventenne incarna e vive la sua appartenenza a una terra amata, a un mondo prossimo alla fine, a una lingua che è lingua dello slancio affettivo e della resistenza intellettuale: come nell’immagine della bimba affidata ai versi finali in Aleluja, una delle Poesie a Casarsa:

 

Sidina ta la cjasa
cu lis peràulis strentis
tal còur romai pierdùt
par un troi de silensi.
 
 
Muta dentro casa
con le parole strette
al cuore ormai perduto
lungo un viottolo di silenzio.

Antonella Sbuelz