Un’esigenza cognitiva della specie


 

In diversi libri di poesia usciti negli ultimi anni, specie tra gli autori più giovani, vi è un più intenso riferirsi alla dimensione biologica e neurocognitiva dell’essere umano, al suo essere incarnato e situato nell’ambiente (per esempio, accostando nella stessa scena eventi che coinvolgono particelle elementari a altri di natura cosmologica o geologica, o scomponendo il percepire nella sua materialità organica e inorganica). Sembra emergere un’idea di poesia come un’esigenza cognitiva della specie, dal momento che, nel leggerla, si compie un rito fossile, in cui la voce di un uomo entra nel corpo di un altro tramite il suono del pensiero. Nella mente è infatti il suono a consentire l’accadere del pensiero, innervato nella lingua, poiché è presente già nel momento in cui si formano la sintassi e il lessico. Da questa materia sonora e linguistica chi ascolta prende coscienza del suo sentirsi vivo, poiché è tutto il corpo a protendersi per l’inclinazione naturale a imitare il movimento e il ritmo. Leggere una poesia è muoversi nello spazio per percepirlo con la materia sonora cosciente. E questo incarna l’agire dell’essere umano.

Condividi questo scenario? Quali di questi aspetti ti interessano di più nel fare poetico tuo e degli altri? Quali possono essere gli effetti sulla lingua dell’attenzione alla dimensione biologica e cognitiva dell’uomo? Ti vengono in mente degli esempi? Quali libri, non solo di poesia, hanno sollecitato la tua riflessione su questo argomenti?

 
 

Molta poesia recente sembra andare in questa direzione, è vero: una grande attenzione alla componente biologica e cognitiva, sì, credo che sia un’attenzione al funzionamento delle cose e al nostro posizionamento rispetto a loro. Usiamo molto l’obiettivo, o comunque un’ottica che ci separa dall’oggetto guardato. Osserviamo da una distanza silenziosa i globuli rossi, i quanti, gli oggetti astronomici: li immaginiamo, in fondo, perché si tratta di eventi al di fuori della nostra portata che, nonostante questo e proprio per questo, ci influenzano. Perché guardiamo questi oggetti funzionare? Perché tutto questo finisce nelle nostre poesie?

Credo che la ragione principale sia il nostro essere immersi in un costante processo di significazione. Siamo circondati dalle spiegazioni, dai posizionamenti e dai ruoli. L’attenzione che dimostriamo per il funzionamento del nostro corpo e del cosmo mi sembra un chiaro segnale del desiderio che abbiamo di dire la nostra nel grande discorso sulla comprensione della realtà. Penso anche che sia normale sentirsi smarriti di fronte alla sovrapposizione di funzionamento e significato come uniche realtà accettabili: la poesia fa i conti con questa situazione – inevitabilmente – e la voce può auto-emarginarsi al cospetto di oggetti così tanto eloquenti di per sé da minacciare il ruolo dell’essere umano. Allora cerchiamo di avvicinarci al modo in cui le cose e il nostro corpo funzionano, forse per paura di restare esclusi da una realtà significante perché funzionante: ma ne siamo comunque esclusi, almeno in parte.

Mi viene in mente un libro di filosofia di Timothy Morton, “Iperoggetti”. In questo libro si parla di oggetti trans-dimensionali che ci influenzano senza che noi possiamo rendercene conto a sufficienza. Percepiamo a malapena le manifestazioni degli effetti che hanno su di noi, senza riuscire davvero a incontrarli per stabilire un dialogo. Si tratta di oggetti come il riscaldamento globale, il petrolio, o un buco nero. Le scoperte scientifiche ci dicono sempre meglio cosa siamo, dove siamo e se siamo, con una accuratezza stupefacente e noi ci lasciamo “tradurre”, smarriti e estranei. Cosa possiamo scrivere quando tutto è fuori dal nostro controllo?

Forse è proprio nella necessità di controllo, però, che esiste un problema, perché potremmo finire col dare alla poesia il ruolo di un operatore che compie e dà risultati.

Vedo semmai nell’inefficienza della poesia un valore non trascurabile. L’inutilità brilla e non la lascerei nascosta dietro all’interesse per le cose e come funzionano. Bisogna inventarne altre secondo me, di cose: di più inutili e meno efficienti, di eloquenti in modo diverso.

La tendenza che intravedi potrebbe avere anche il valore di un espediente per portare un contenuto di verità certificata (!) all’interno della poesia, ma non mi sembra un intento che combacia con quello che la poesia può fare così bene: avvicinare le persone fra loro.

Mettiamo che questa attenzione sia usata con l’intento di dare alla nostra poesia una veste seria in quanto razionale, e cioè utile, o magari “impegnata”, in un momento in cui più ci consideriamo seri e più finiamo per risultare «cringe». Ecco, credo che questa attenzione alla sfera biologica, cognitiva, scientifica, debba andare semmai insieme a un altro tipo ti attenzione, quella per la relazione fra i membri di una comunità. Non penso che le nozioni di cui disponiamo possano proteggerci dall’incontro/scontro con chi legge. Non possiamo dimenticare che la poesia è la ricerca di una relazione. Comunque, se non lo usiamo come uno scudo o un biglietto da visita, il nostro sguardo sui meccanismi del corpo e della cognizione potrebbe essere l’alleato di una poetica della prossimità, che ci aiuti a spogliarci davanti a chi legge e a metterci nelle sue mani.

Ci serviamo della realtà perché esiste una poetica premeditata: ciò di cui parliamo nelle nostre poesie è nutrito dal nostro discorso. Non è il contrario.

Mi interessa molto il modo in cui usiamo lo sguardo e parliamo di una distanza, cioè di una relazione. Guardiamo cose che funzionano, che non funzionano, cose che non ci sono e anche cose che non significano niente. Mi domando spesso se possiamo stare bene nell’insensatezza. Possiamo amarci anche dentro tutto questo lavoro e tutto questo significato? Sento il bisogno di cosa è inspiegabile, disumano, disertore, probabilmente perché non riesco ad accettare di guardare e considerare soltanto quello che esiste: voglio guardare anche quello che manca.

Penso che la considerazione per gli ambiti biologici e neuro-cognitivi in poesia abbia anche a che fare con una ragione di partecipazione. Non vogliamo essere abbandonati e vogliamo fare parte, essere coinvolti, parlare di cosa esiste. La nostra coscienza per prima è il risultato di un processo e vogliamo contemplarla come le altre cose. Cerchiamo di afferrare le cose meglio che possiamo, come se la poesia fosse “cercare di capire”. Però non c’è soltanto la comprensione: c’è costruzione, desiderio, pretesa, progetto. La lettura è anche questo. La poesia e la relazione sono anche questo.

Quella che credo sia la più rilevabile fra le conseguenze di questa attenzione sulla nostra lingua è una forma di stupore. Ci stupisce il funzionamento, ma in un modo non entusiasta, spesso. Non è stupore vero e proprio: somiglia molto di più al tentativo di imbrigliare questo stesso stupore (di normalizzarlo) e cioè al tentativo di venire a patti con gli enti funzionanti affinché ci coinvolgano. Vorremmo instaurare con loro una relazione paritaria. Conosciamo i nostri corpi e anche quali forze sono in gioco nell’universo (almeno un po’), ma non ci basta saperlo: per poterlo vedere insieme dobbiamo immaginarlo.

Forse la poesia è davvero un’esigenza cognitiva della specie, ma soltanto se riesce a farci avvicinare tra di noi. Io la vedo come una relazione potenziata, o una zona in cui la relazione è la vita e non sono “vita” unicamente i soggetti coinvolti. Credo che la poesia possa essere la voce che condividiamo e la sua specificità sia la crucialità intrinseca, che non solo rende possibile il nostro avvicinamento, ma quasi la nostra sovrapposizione.

Altra conseguenza ipotizzabile sulla lingua, parlando della distanza con cui osserviamo, potrebbe essere una certa freddezza, ma non vedo necessariamente in questo un pericolo, dato che neanche un calore intenso garantisce un incontro efficace tra noi e chi legge. Credo molto nell’immaginazione poetica: c’è una lingua, un codice, ma la differenza la fanno le intenzioni e i progetti, ciò che immaginiamo. In questo senso le intenzioni di chi scrive e di chi legge vengono a combaciare. Per esempio: a me piacerebbe essere distrutto da quello che leggo e vorrei al contempo sentirmi responsabile di questa distruzione. Questa è un’esigenza che ho tanto come lettore quanto come scrivente. Non sono due momenti diversi. Cosa distingue chi scrive da chi legge, a un certo punto, è soltanto avere immaginato cosa è stato poi scritto: qualcosa che è in mano a chi legge. Per questo sono convinto che la poesia sia una condivisione di responsabilità, ma sarebbe meglio chiamarla soltanto «relazione».

Leonardo De Santis

 
 
 
 
In copertina opera di Pawel Czerwinski – unsplash.com