Poesie dell’Italia contemporanea: dialogo con Tommaso Di Dio

Un dialogo con Tommaso Di Dio su Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore, 2023)
 
 

Un’altra antologia. Serviva? Non trovi che lo strumento-antologia sia sempre più fragile e parziale per descrivere la condizione della poesia degli ultimi decenni? E allora, come raffigurare l’astro esploso senza stilare un altro catalogo? (Io, per esempio, credo nella necessità di compiere scelte più drastiche. Per capirsi, vorrei un nuovo Mengaldo che, forte della sua autorevolezza critica, individui un canone di autori capaci di raccogliere il consenso).

La metterei così: negli studi letterari, niente serve veramente a nulla, ma tutto può tornare utile. In questo senso, di certo un’altra antologia non serviva (ma serve l’ennesimo libro di poesia?, l’ennesimo saggio sulle neuroscienze?), ma forse può tornare utile: al limite, solo a far discutere i lettori e gli studiosi su di un tema sul quale da tempo (più o meno vent’anni) non ci si soffermava adeguatamente. Se ti fai un giro nelle librerie, poi, ti accorgerai che sono disponibili sugli scaffali poche antologie e per lo più quelle disponibili non si spingono nel nuovo millennio. C’è un vuoto triste: per chi conosce la ricchezza della poesia contemporanea sembra impossibile questa povertà di rappresentazione, questa penuria di testi, questa occasione mancata di condivisione e di spartizione. Negli ultimi anni ci sono stati certamente tentativi di raccontare la poesia contemporanea, ma molto parziali e a partire da posizione che finivano per ridurre la poesia ad un campo ristretto di scritture. Sono tutti tentativi legittimi e a loro modo utili. Sono il primo a credere che nessun libro sia definitivo e che, anzi, il vero successo di un’opera sia l’opera successiva: che smentisce la precedente e la supera. Di fronte ad un panorama complesso – e per la poesia si parla di complessità ingovernabile almeno dal 1975! –, la prima risposta istintiva è quella che dici tu: la drastica semplificazione. Sappiamo però tutti fin troppo bene quanto indulgere in strategie di riduzione sia deleterio, se non addirittura pericoloso, soprattutto in campo culturale. Siamo infatti prontissimi a puntare il dito contro chi riduce tutto a facili polarità e dicotomie (come troppo spesso fa il dibattito politico) e continuamente invochiamo la necessità di introdurre sfumature e di rendere conto delle posizioni intermedie, salvo poi rimpiangere la forza persuasiva (e regressiva) di una decisione forte e netta. L’idea di questo mio volume va proprio in direzione contraria: provare a proporre uno scarto di lato e offrire un’opera che inneschi un approccio del tutto differente, a partire dal genere. Poesie dell’Italia contemporanea è prima di tutto un esperimento con il genere antologico. Non è un’antologia classica che assume il genere come un dato di fatto, ma è un’opera che prova a problematizzare gli assi sui cui di solito è stato costruito, andando a recuperare modelli eretici e periferici (come l’antologia di Antonio Porta Poesie degli anni Settanta, 1979 o quello di Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), 2005, e provando a scardinare l’enfasi autoriale (e la relativa ansia canonizzante), che nelle antologie recenti è il vero asse inscalfibile, anche in quelle a cura di coloro che si dichiaravamo ostili a ogni forma di netta presenza autoriale, come quella di Vincenzo Ostuni e prima ancora quella di Edoardo Sanguineti. La scommessa era tentare un approccio che non considerasse la complessità e la polifonia del nostro tempo come un ostacolo e che, anzi, da un lato rendesse conto della grande varietà delle scritture contemporanee e dall’altro non fosse un semplice catalogo di autori (da questo punto di vista l’indice del mio volume non dice quasi nulla), ma tentasse la restituzione alla comunità dei lettori di una molteplicità selvatica di forme testuali, articolata narrativamente. Poesie dell’Italia contemporanea vuole offrire un racconto cronologico di possibilità poetiche: uno strumento che induca il lettore a passare da un’ideologia del paradigma eroico (“ecco gli autori che hanno prodotto la vera poesia”), all’idea dell’esemplificazione. Potremmo anche dire: dal “così è stato” al “così, per esempio, può essere”. Ecco perché il titolo Poesie dell’Italia contemporanea è per me molto importante: non un’antologia di “poeti”, né della “Poesia” con la maiuscola, ma semplicemente “poesie” al plurale, così da suggerire che ogni testo di grande letteratura inventa una propria definizione (e una propria tradizione) e nessun testo si accontenta di quella precedente, ma la espone al dialogo delle forze intertestuali perché sa di essere relativa, transeunte, carica di memoria.

 

Tu sostieni di aver voluto ricostruire non la scena, ma il paesaggio della poesia contemporanea, per dare voce alle diverse nicchie di un ecosistema intricato e dialogante. In questo paesaggio mancano però la poesia visiva e la poesia performativa, e vi è poca poesia (cosiddetta) “di ricerca” (termine grottesco…come se la forma poetica non fosse ricerca). Come hai proceduto nelle tue scelte? La tua fotografia del paesaggio non rischia comunque di rendere la tradizione orizzontale e mobile e simultanea?

Come ha scritto il primo studioso che si è esplicitamente occupato della filosofia del paesaggio, Georg Simmel, ogni paesaggio è inscindibile dal suo punto di vista: non c’è alcuna possibilità di avere uno scorcio se non si assume insieme alla “cosa guardata” anche il “chi guarda”. In questo senso, nel mio lavoro non c’è nessuna illusoria assunzione di oggettività: è il mio percorso, è il mio punto di vista. Del resto, è proprio questo che mi è stato chiesto dall’editore: un percorso fortemente autoriale. Se avesse voluto uno sguardo sorretto da paradigmi diversi, si sarebbe rivolto ad altri curatori. Ma così come ci si libera del mito dell’oggettività non bisogna neanche ricadere in quello del soggetto: nessuno è una monade assoluta. Il mio sguardo in questi anni di lavoro intorno e attraverso la parola poetica si è nutrito di apporti e di ibridazioni, si è costruito anche grazie all’ascolto e alla lettura di tanti scrittori molto diversi da me. Ho cercato sempre di ascoltare e di tenere conto dei consigli che mi venivano offerti e ogni volta qualcuno di cui stimavo l’opera mi consigliava un libro correvo a leggerlo. Così ho provato non solo a costruire un paesaggio che esprimesse la polifonia delle scritture del contemporaneo, ma che anche, rinunciando a qualcosa che era più mio, contenesse l’altro da me. Anche perché volevo che il mio racconto restituisse al lettore un aspetto centrale dell’esperienza della poesia: la dimensione di alterità, l’apparire di una forza spaesante che sconcerta il già detto e il precostituito, rammemorando qualcosa che credevamo dimenticato. Per fare questo, ho dato grande enfasi non ai nomi dei poeti o alle correnti poetiche (che so: poesie lirica e poesia di ricerca ecc. che sono strategie che alla fine conducono ad appiattire i testi in categorie rassicuranti), ma alla costruzione narrativa delle sequenze. Qui ho privilegiato quelle forme che innescavano energia per antitesi o per analogia. Ho cercato di creare incontri con la differenza perché non si ripetessero esperienze linguistiche troppo simili fra loro. Autori che hanno scritto molto, esplorando più soluzioni stilistiche, sono stati avvantaggiati nella presenza rispetto ad autori che hanno scritto meno o magari ottimi libri, ma con una lingua meno riconoscibile per originalità. Mi pare un segnale positivo che diversi poeti lirici dicano che il mio lavoro è del tutto sbilanciato sulla poesia di ricerca, mentre altri (compreso tu qui) mi dica il contrario: uno degli obiettivi impliciti del lavoro era offrire uno sguardo sulla poesia che facesse saltare le dicotomie su cui ormai da anni il dibattito letterario italiano si è incancrenito, affossandosi su di una polemica a mio modo di vedere del tutto anacronistica e sterile. Il lavoro dei poeti più interessanti, da diversi anni, è oltre tutto questo. Leggere una poesia di Alessandro Broggi subito prima di una di Antonella Anedda può innescare riflessioni sulla nostra lingua che spero suscitino interesse anche in chi crede di aver già letto tutto. In questo senso, ho scelto di rinunciare alle espressioni che non avessero nella pagina alfabetica in lingua italiana il proprio centro: sia la poesia visiva che la poesia performativa (e, per altre ragioni, il mondo della poesia dialettale) a mio parere necessitano di supporti di restituzione che esulano dal libro e in particolare dal libro nel formato che avevamo previsto con il Saggiatore. Spero che accada presto: spero che si affaccino studiosi che provino a raccontare queste aree della poesia così interessanti e in fermento.

 

La forza di quest’antologia sta nel porre attenzione ai testi, che, suddivisi per decennio, sono accostati in modo da creare attriti, continuità, legami, slittamenti ironici. Solo se ci si affida alla lettura dei testi, uno dopo l’altro, succede qualcosa, credo da te voluto: emerge un quadro di lingue immerse in un’atmosfera. Lingue, perché le poesie danno conto di una vasta varietà di forme che si corrispondono e si fronteggiano; atmosfera, perché i testi sono scelti da te per comporre uno sguardo esteso verso il mondo.

Se questo libro ha un obiettivo sta qui: tornare a leggere le poesie, provare a stare dentro le loro parole. Di fronte a un’antologia, spesso si finisce a parlare della tesi che sorregge il lavoro e poco ci si cura dei testi che dentro sono raccolti. Qui è il contrario. Lo dicono anche le proporzioni: l’ottanta per cento del volume è fatto di testi. Se lo si apre a caso, quasi sempre si cade su di una poesia e non sulle mie parole. È un effetto studiato, voluto: questo libro è innanzitutto una foresta di forme poetiche entro cui il lettore potrà tracciare i sentieri che gli sembrano migliori e più opportuni, andando di qua e di là fra le parole che costituiscono la sola materia della poesia. Per la composizione delle sequenze testuali, mi sono ispirato a due opere colossali del Novecento: i Passages di Walter Benjamin e l’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg. Per alcuni anni, ad aprire il volume ci sarebbe dovuto essere questo esergo di Benjamin: «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare.»1 Poi all’ultimo mi sono deciso ad un riferimento diretto al metodo di Warburg, ma spero sia evidente che Poesie dell’Italia contemporanea sia, in tutto e per tutto, un’opera di montaggio che, come intendeva Benjamin, “usa” le tracce del passato, ne fa qualcosa: senza considerare il presente come un’epoca di decadenza (da chissà quale paradiso perduto poi) né la storia come un progresso2, ma come occasione di una «attualizzazione»3. L’obiettivo scoperto di questo lavoro è quello di scoprire «nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale»4: nel singolo componimento un riflesso dell’atmosfera di un’epoca. Per fare questo ho cercato di creare una sintassi fra i frammenti che sottolineasse elementi stridenti o sinergie inattese. Da questo punto di vista mi sono ispirato al lavoro di Warburg: un testo commenta il precedente, gli risponde, gli fa il controcanto, a volte persino lo irride, ma tutti sono connessi e legati in una forma di intensità in movimento. Penso per esempio, nel 1994, al testo di Giulia Niccolai da Frisbees (poesie da lanciare) che segue l’ultimo componimento di Composita solvantur di Franco Fortini: l’ironia qui è totalmente voluta. Oppure, penso alla vicinanza di due libri del 2005, diversissimi, ma animati da un medesima luce tragica di amore e lutto: Tema dell’addio di Milo De Angelis e La tagliola del disamore di Jolanda Insana. Accostati uno dopo l’altro, si rivela una sinergia sotterranea non scontata. Ma il confronto gioca anche con le generazioni: penso a un testo del 2007 di Franca Mancinelli, da Mala kruna, che, letto dopo quello di Mariangela Gualtieri da Paesaggio con fratello rotto, mostra con forza la continuità delle metafore vegetali, al di là dell’età delle due scrittrici. Da questa prospettiva, i testi narrativi che aprono le decadi acquisiscono un senso tutto particolare. Innanzitutto (elemento di metodo secondo me non irrilevante), sono state scritte dopo la scelta dei testi, non prima: intendono dare conto dell’atmosfera in cui quei testi si muovono, senza alcun determinismo storicistico. La narrazione dell’atmosfera di un’epoca è anche uno sprone affinché il lettore ricordi che molto altro accadeva intorno alle dispute dei poeti, con cui il mondo dei testi è sempre in rapporto più o meno diretto, più o meno remoto: sempre potenzialmente dialettico.

 

D’altra parte la centralità dei testi comunica implicitamente che la funzione autore non esiste più: perché percorrere tutto De Angelis? O tutto Conte? Fino a dove seguire un autore e perché? E se tolgo l’autore, cosa rimane dello stile? Un brodo omogeneo di lingue che talvolta si parlano?

La decisione di abbassare l’enfasi autoriale è stata liberatoria. Ma la mia non è certo una ideologia: è un’occasione sperimentale per generare alcuni effetti che ritengo interessanti. Per esempio quello che ricordi tu: far emergere la continuità di una tradizione invece che la discontinuità, provare a fare esperienza dell’ordito linguistico su cui ciascuno poeta pone la sua specifica trama. Continuità e discontinuità sono certamente valori importanti in letteratura, ma troppo spesso alla seconda è dato tutto il campo, con effetti non solo grotteschi (autori ci appaiono alieni provenuti da Marte), ma anche – in questa nostra epoca così attenta ai valori etici – del tutto sbagliati. Un lettore mi ha confessato che è stato quasi uno shock quando si è reso conto che stava leggendo le poesie di una decade senza più pensare a chi ne fosse l’autore: gli sembrava impossibile farlo. Le parole sembravano appartenere tutte alla stessa voce e viveva questa esperienza con un godimento misto a sconcerto. È interessante che in un’epoca di asfissiante narcisismo come la nostra si possa finalmente fare esperienza di una lingua liberata dai pregiudizi del nome, dell’identità, addirittura del genere. Mi domando: ma non è proprio questo uno dei compiti più importanti della parola poetica? Quando leggiamo un testo e ne restiamo colpiti, siamo davvero colpiti dall’identità di chi lo ha scritto o da un insieme di caratteristiche formali che veicolano, in noi, un’esperienza estetica che ci permette di entrare nel testo? Se continuiamo a leggere la poesia, non siamo stati anche sedotti dalla possibilità che la poesia possa farci fuoriuscire dalla nostra condizione singolare, per approdare ad una dimensione potenzialmente comune? La struttura di Poesie dell’Italia contemporanea invita a fare questa esperienza, ma senza farne un dogma. Non credo che questo criterio vada esteso a tutte le mappature né penso che le antologie per autori siano dannose: semplicemente ho provato a fare qualcosa di diverso e spero non inutile.

 

Tra un decennio e l’altro i quadri storici, narrati e divulgativi, colgono gli elementi socio-politici del decennio, mettendoli in relazione con alcune direzioni create da opere e autori per te significativi, forse con eccessivo arbitrio e approssimazione…

Come ti dicevo poco fa, sono partito dai testi e dai testi ho ricostruito i contesti. Non ho fatto il contrario. Il mio è stato un metodo induttivo, non deduttivo. In questo senso, le soglie delle decadi sono una traccia narrativa che prova, in forza di luoghi emblematici e rapidi scorci, a suggerire un’ambiente in cui i testi che poi saranno incontrati potranno risuonare. Mi è stato criticato che non avrei dovuto affrontare la storia; oppure che sono troppo divulgativi, quasi pensati per un pubblico troppo inesperto. Mi sono convinto ad un tono così orizzontale e aperto soprattutto perché la mia vuole essere, in accordo con l’editore, un’opera di ampia divulgazione non rivolta solo agli specialisti, ma nemmeno soltanto al pubblico universitario. In anni di incontri letterari, di laboratori e di dialoghi, mi sono reso conto che c’è un pubblico interessato alla poesia molto più ampio e variegato di quanto si pensi: un pubblico che non è per forza iscritto a lettere e filosofia, che magari non ha un dottorato o se ce l’ha magari è in biologia o chimica, e a cui nessuno parla, nessuno si rivolge se non il più triste marketing di alcune case editrici, spesso per propinargli un’idea in miniatura della poesia contemporanea: una sorta di “poetry for dummies”. Mi rivolgo anche a loro, ai curiosi di tutte le sorti, che sono però abbastanza intrepidi da voler intraprendere un cammino nella polifonia della poesia, nella complessità della parola poetica. Anche per loro sono pensate quelle soglie narrative che spero si possano leggere come un romanzo della poesia contemporanea e che diano una musica d’insieme entro cui leggere gli assoli che incontreranno nella sezione dedicata ai testi.

 

Nella parte finale vi sono delle strategie di avvicinamento ai testi: una serie di commenti e racconti critici ad alcuni testi campione, quasi un invito al lettore a fare altrettanto, l’esercizio di fare dialogare i testi, innescando reazioni di contiguità, frizione ironica o sorpresa. È così che vorresti fosse chiamato in causa chi leggerà questa antologia? Occorrerebbe peraltro continuare il lavoro e, per esempio, prenderti la briga di raccontare il paesaggio linguistico del decennio attraverso le poesie che hai selezionato per ogni decennio. 

La sezione finale Percorsi, intrecci è stata l’ultima ad essere stata pensata e l’ultima ad essere scritta. È la sezione in cui mi sono divertito di più. Spero che il lettore lo senta. Penso che nei prossimi anni riprenderò questa sezione per svilupparla, ampliarla e magari farne un volume del tutto nuovo. Fra i grandi affreschi atmosferici e la singolarità dialogica dei testi, sentivo che qualcosa mancava: mi serviva una zona intermedia in cui i testi entravano in contatto ravvicinato, ma saltando ogni contiguità cronologica. Non volevo che il tempo fosse l’unico strumento di lettura: il tempo è solo una categoria di comodo. Costruito l’organismo testuale delle Poesie dell’Italia contemporanea, mi saltavano subito all’occhio alcune corrispondenze tematiche o formali fra testi molto distanti fra loro nel tempo: è come se tutto un tracciato di sintonie a distanza, una specie di sistema nervoso, si fosse reso visibile all’improvviso. Si trattava allora di offrire alcuni esempi di percorsi possibili, fra i moltissimi, per suggerire al lettore un modo di “usare” il volume che ha fra le mani, una via per attraversarlo. Sarebbe bello che altri continuassero questo lavoro: sarei molto felice che altri proponessero temi diversi o usassero il volume per innescare connessioni proprie fra testi a cui non ho pensato. Insomma che Poesie dell’Italia contemporanea diventasse un ponte e una porta, uno strumento per fuoriuscire dalle sue pagine per approdare ad altro, ad altri testi, ad altri libri, ad altri appuntamenti con la parola della poesia.

 

Escludere la poesia dialettale non è tagliare fuori una parte di storia decisiva della poesia contemporanea (visto che si sono cimentati in dialetto anche i più grandi poeti in lingua)? Non tanto per una questione di “difesa delle minoranze”, quanto perché ha rappresentato l’ultimo movimento comune di riflessione sulla lingua poetica in rapporto alla mutazione antropologica, anche se «la morte del mondo dei dialetti non ha causato la morte dei dialetti, ma la loro migrazione in un altro mondo dove, come tutti i migranti, hanno conservato quanto potevano e quanto potevano hanno perso della loro provenienza»5. I dialetti infatti hanno portato con sé «quel vissuto che ancora costituisce la memoria presente»6 e dal quale scaturisce una domanda di senso individuale rispetto ai cambiamenti storici.

Sì, sono convinto anch’io che la mancanza della poesia dialettale comprometta il quadro generale del lavoro. È un fatto che alcuni dei maggiori poeti contemporanei si sia espresso e ancora si esprima in una poesia dialettale: penso a Franco Loi, a Nino De Vita. Eppure mi è stato impossibile includerla. Da un lato è verissimo che per molti decenni (almeno per gli ultimi trent’anni del Novecento), l’opzione dialettale è stata un modo per sfuggire dalle storture della storia, per ricavarsi dentro la historia maior una nicchia di dissomiglianza per guardare dal margine linguistico (e spesso geografico) un centro che si voleva magari contestare o in cui non ci si riconosceva totalmente. La sua importanza vale anche come luogo di formazione e di gestazione per poeti che poi hanno continuato la loro vicenda poetica in lingua nazionale (l’esempio di Gian Mario Villalta è molto significativo). Inserirla nel lavoro che stavo costruendo mi avrebbe costretto o a raddoppiare lo spazio complessivo del progetto in due volumi (cosa impossibile per diktat editoriale) o a darle uno spazio marginale: tenerla in una specie di “riserva indiana”, in una minoranza che ne avrebbe ripetuto passivamente la minorità, tenendola tale. Invece mi è parso più onesto (e più potente) escluderla del tutto: la lacuna non è un’opzione rassicurante e per paradosso implica maggiormente il lettore verso una ricerca fuori dal mio volume di altre fonti per colmarla, invece che dargli un segnale che alla fine rivela solo una diminutio. Del resto, per chi volesse dare uno sguardo sulla questione ci sono volumi molto belli e importanti: penso a quello di Franco Brevini (Poeti dialettali del Novecento, Einaudi, 1987) o più recentemente a L’Italia a pezzi (ed. Gwynplaine, coll. Argo, a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava, Christian Sinicco, 2016). Insomma, un volume è anche le sue mancanze e ciò che accetta di non essere, come limite spero fertile.

 

Poor Tommaso, dopo l’uscita della tua antologia la rete si è spaccata tra coloro che la biasimano per motivi critici (e non sono presenti nell’antologia) e coloro che la salutano con entusiasmo (e sono presenti). Cosa dici a tuo disdoro o a tua discolpa?

Che un’operazione del genere smuova un poco le acque fintamente chete della poesia contemporanea è una cosa che mi aspettavo. Ma quello che dici non è del tutto vero: ho ricevuto molti segnali di grande attenzione al progetto e di interesse sincero e stima per l’operato anche da coloro che non sono stati inclusi o che non condividevano del tutto la proposta. In questi giorni mi stanno arrivando molti messaggi anche da lettori che non conosco e che mi raccontano come stanno entrando nel lavoro, mi chiedono perché quel poeta non è entrato nella sezione oppure mi raccontano quale testo li ha trovati. Come al solito alcuni segnali negativi, anche se minoritari, fanno semplicemente più rumore di altri. Ma il mio è un progetto del tutto particolare, che non ha alcuna intenzione né canonica né canonizzante, non ha alcuna idea prescrittiva e non è mosso da ambizione personale, se non quella di provare a far incontrare alcune poesie del contemporaneo ad un numero ampio di lettori in una forma nuova, non scontata. È fortemente inclusivo, e non conclusivo. Non si suppone definitivo né definitorio. Molte delle esclusioni non derivano da un giudizio sull’opera, ma dalla struttura molto particolare che mi ha obbligato a costruire una sequenza di intrecci e rimandi in cui non era possibile far rientrare tutti i testi che pure ho amato. In più alla fine del lavoro abbiamo deciso di integrare una proposta di autori più giovani, nati negli anni ’90, che all’inizio della lavorazione avevamo escluso. Più ci avviciniamo alla fine del lavoro, più aumentano i testi e gli autori presi in esame. Non è solo perché più ci si avvicina al punto di origine più è impossibile individuare con certezza i libri più significativi; c’è qualcosa d’altro: più ci si inoltra nel contemporaneo, più – mi pare – la funzione autore è sempre meno rilevante. Il libro poetico contemporaneo è una sorta di nuvola diffusa, un’intensità in movimento; è trans-autoriale e vaga da schermo a schermo, fra pagine di carta e pagine di luce, fra facebook, instangram, tik tok: nessuno libro di un singolo autore potrà raccogliere in toto la sua energia, ma forse un libro di libri come Poesie dell’Italia contemporanea potrà darne un’intuizione, anche proprio in virtù del suo negativo, di ciò che ha inevitabilmente escluso e che pulsa vivo ai margini della pagina.

 
 
 
 

1    W. Benjamin, I Passages di Parigi, [N 1a, 8], p. 514.

2   Ivi, [N 2, 5], p. 515: «Il superamento del concetto di “progresso” e quello del concetto di “epoca di decadenza” sono due facce della stessa medaglia.»

3    Si veda ibidem, [N 2, 2]: «Come uno degli oggetti di questo lavoro, dal punto di vista del metodo, può essere considerata l’intenzione di dimostrare un materialismo storico che ha annichilito in sé l’idea del progresso. Proprio qui il materialismo storico ha tutte le ragioni per distinguersi nettamente rispetto alle forme tradizionali del pensiero borghese. Il suo concetto fondamentale non è il progresso, ma l’attualizzazione.»

4    Si veda ivi, p. 515

5    G. M. Villalta, Vanità della mente, Milano, Mondadori, 2011, p. 82.

6    G. M. Villalta, I dialetti della poesia, «Baldus», V, 1, 1995, pp. 13-20: 13. Su questo argomento si veda anche G. M. Villalta, Ragioni e limiti delle poetiche neodialettali, «Tratti», XIII, 44, 1997, pp. 51-57.