Attilio Bertolucci nel tempo incerto della Capanna indiana


*

Quando si pensa alla nozione e alla percezione del tempo nella poesia italiana del Novecento, il primo titolo che subito balza alla mente è senz’altro Sentimento del tempo. Afferma in proposito Ungaretti:

Una città come Roma, negli anni durante i quali scrivevo Sentimento, era città dove si aveva ancora  il sentimento dell’eterno e nell’animo nemmeno oggi scompare, davanti a certi ruderi. […] A Roma si ha il sentimento del vuoto. È naturale, avendo il sentimento del vuoto, uno non può non avere anche l’orrore del vuoto1.

L’idea di un tempo trascendente appare qui strettamente connessa al senso di vertigine presente nell’arte barocca. Ma tale concezione, che potremmo anche definire “verticale”, è rintracciabile già nell’esperienza del Porto sepolto, quando il poeta rivela che «Ogni mio momento / io l’ho vissuto / un’altra volta / in un’epoca fonda / fuori di me»2.

Per Montale si può invece parlare di un tempus edax rerum, ad opera del quale il passato svapora nel buio della memoria senza alcuna possibilità di recuperarlo. La memoria si rivela incapace di custodire ciò che è perduto di fronte allo scorrere inesorabile del tempo, che tutto cancella e tutto sospinge in un muto oblio: «Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria…»3 dicono i proverbiali versi delle Occasioni.

Questo nei due autori comunemente ritenuti i rappresentanti di una supposta diarchia poetica del Novecento (o piuttosto del “novecentismo”) italiano: due differenti visioni del tempo, che tuttavia si mostra in entrambi come estraneo alla coscienza individuale, quasi una sorta di entità disumana.

Al contrario, la sensibilità emotiva dinanzi al trascorrere del tempo appare in Attilio Bertolucci, dalle prime raccolte giovanili al mirabile opus maius della Camera da letto fino alle ultime prove, profondamente immersa nel mondo quotidiano che circonda il soggetto poetante, di continuo sorpreso dall’ineludibile immanenza dell’agire umano. Il tempo non è dunque un mostro vorace né una divinità indifferente, ma piuttosto un morbido flusso che si trasmette in modo, potremmo allora dire, “orizzontale”, che simile a un manto si distende sui giorni e sui fatti della vita. È il tempo fluido che Bertolucci riconobbe, giovanissimo, nelle pagine di Proust, dal quale avrebbe poi appreso il valore fondante della memoria in seguito sotteso all’intera sua opera. E insieme a Proust – lucidamente autodefinitosi réaliste de l’âme, come riporta il nostro autore in uno scritto tardo4 – c’è naturalmente Bergson, con il Saggio sui dati immediati della coscienza, libro dal filosofo francese più volte ripreso e rimaneggiato, nel quale notoriamente viene teorizzata l’idea di durata e di convergenza di tempo e spazio, caratteri ben presenti anche nel poeta di Parma.

L’evento forse più rilevante nella vicenda biografica, tutto sommato piuttosto comune, di Bertolucci ha luogo nel 1951, quando decide di lasciare la città natale e l’amato e rassicurante sobborgo rurale in cui risiede per trasferirsi a Roma, dove trascorrerà, tranne i periodi estivi, tutti gli anni a venire. Per il poeta non si tratta però soltanto di un semplice cambio di residenza, pur con gli impreveduti strascichi traumatici che ne derivano, ma anche di una consapevole cesura all’interno del proprio percorso artistico. In quello stesso anno esce, presso Sansoni, La capanna indiana. Il volume è composto da una corposa scelta dalle raccolte precedenti, ovvero Sirio (1929) e Fuochi in novembre (1934), da una nuova sezione intitolata Lettera da casa, datata 1935-1950, e infine dal poemetto eponimo, indicato come risalente agli anni 1948-1950. Nel 1955 di nuovo Sansoni dà alle stampe una seconda edizione del volume, accresciuto della sezione giusto denominata In un tempo incerto, collocabile tra il ’51 e il ’54 e quindi tutta “romana”. La copertina di entrambe le edizioni è opera di Carlo Mattioli, e sarà poi Bertolucci stesso, nell’epicedio dedicato al pittore, a ricordarne le circostanze:

 

Ho qui sotto gli occhi
la prima edizione
della Capanna indiana
avviluppata da una camiciola
rossa – in altre copie verde –
che tu decorasti con canne di bambù,
e tenere foglioline da te scoperte
in tipografia, relitti dimenticati
da anni all’avvento
d’una moderna scuola grafica5.

 

Qualche anno prima, con ogni probabilità nel ’47 annunciava a Vittorio Sereni: «Sto scrivendo una cosa lunga, La capanna indiana, con quel cuore di una volta»6 – più o meno consapevolmente parodiando Leopardi che, a proposito di A Silvia, annunciava alla sorella Paolina: «Dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta»7. Si sta evidentemente riferendo al poemetto, e il fatto che non lo ritenga solo una sintesi dei lavori pregressi, ma come una svolta vera e propria della propria attività è testimoniato da una successiva lettera a Sereni, nella quale ribadisce che: «La Capanna indiana: è troppo importante, c’è tutta la mia poesia di questi due anni, buona o cattiva che sia, e il mio sentimento di questi anni. Le cose di prima non le vedo che accresciute da questa»8.

Il titolo è suggerito dal racconto filosofico La chaumière indienne, pubblicato nel 1790 da Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (autore del più noto romanzo Paul et Virginie, ricreato poi in versi da Gozzano), anche se la tematica moraleggiante e l’ambientazione esotica poco o nulla hanno a che vedere con il nostro poemetto. Esso si apre infatti con l’incipit, che tanto piacque a Elsa Morante, in cui la «capanna indiana» è descritta come «una semplice costruzione rurale / ai limiti dei campi» (vv. 3-4), un deposito «dove gli attrezzi da lavoro / giacciono rovesciati» (vv. 7-8) e dove «i pali furono incrociati l’uno / contro l’altro così da ricavarne / un padiglione quieto nell’autunno» (vv. 11-13). Qualcosa dunque di molto somigliante a un teepee, la celebre tenda a cono degli indiani d’America. Va poi rilevato che l’amico Giorgio Bassani aveva tradotto proprio in quel periodo il conte dello scrittore francese, uscito in un volume collettaneo proprio nel 19519.

Altra suggestione e fonte di ispirazione potrà anche essere scaturita dalle quattro versioni che Bertolucci nei medesimi anni compie da William Wordsworth, apparse nel 1948 su «Poesia», nel numero conclusivo della rivista diretta da Enrico Falqui. Sono, nell’ordine: Airey-Force Valley (La valle di Airey-Force), Nutting (Per nocciole), da The Prelude (da Preludio), da The Excursion (da L’escursione); testi che coprono l’intera parabola creativa del poeta inglese, dalle Lyrical Ballads in avanti, nei quali si avverte la stessa sospesa atmosfera di estatica contemplazione e di immersione nel paesaggio che permea La capanna indiana. Al termine del contributo il traduttore vuole infatti sottolineare che «Sono visioni di natura, alle volte eccelse ma sempre dirette, e raccolte da un occhio limpido, umilmente terreno. E poi memorie della vita fanciullesca, pudiche rivelazioni di un’anima che si apre a contatto delle cose, in un discorso familiare e continuo, bellissimo»10.

L’argomento del poemetto consiste appunto nel resoconto di un’escursione compiuta da due ragazzi oltre il limes delle mura domestiche, per sentieri deserti, tra siepi e boscaglie lungo l’«erboso argine» (v.164) del torrente Cinghio, con l’intento di raggiungere il «solitario ritrovo» (v.15) della capanna indiana, meta agognata ma nondimeno vaga; a cui segue un precipitoso e affannato ritorno a casa. L’avventura narrata ha nella realtà una durata temporale limitata all’arco di una giornata o forse addirittura meno, ma sembra svolgersi sullo sfondo di un tempo che si dilata, protraendosi o arretrando verso altre stagioni.

La casa, non la capanna, costituisce dunque il vero fulcro della vicenda: da lì inizia l’azione, e lì si conclude. A partire da essa e fino al rientro in essa si misura il tempo. E anche in questo caso non va escluso l’eco delle traduzioni da Wordsworth, con quelle figure di giovani che lasciano la loro abitazione e, dopo un estatico afflato con la natura, vi fanno, trasognate, ritorno:

 

Era uno di quei celesti giorni
(parlo di un giorno scelto in mezzo a tanti)
che sembra mai non debbano morire.
Così, ragazzo ardente di speranza,
lasciai la soglia della casa, un grande
sacco buttato sopra le mie spalle
ed in mano la pertica uncinata,
e volsi i passi ad un remoto bosco.
(A.B., Per nocciole, vv. 1-8)

 

tutto il cielo ad oriente era infiammato
dal bosco umile alla pianura aperta
per cui corre la viottola. I miei passi
verso casa rivolsi…
(A. B., dal Preludio, vv. 51-54)

 

Verso casa muovevano i pastori
nella nebbia, io seguivo […]
(A. B., da L’escursione, v. 1)11

 

Bertolucci volutamente non chiarisce chi siano i due ragazzi protagonisti dell’episodio. Potrebbero essere Attilio stesso e il fratello Ugo, di cinque anni più anziano e scomparso prematuramente nel 1941. Sembra confermarlo il capitolo XIV della Camera da letto, intitolato Viaggio nella terra dei sigari, nel cui argumentum il poeta spiega che «il fratello maggiore […] sarà per lui guida dolce e già esperta in un viaggio reale e impossibile, non lontano da casa eppure infinitamente remoto»12. O saranno forse i due figli Bernardo e Giuseppe, quest’ultimo nato sì a Parma, ma troppo piccolo ancora per aver potuto scorrazzare libero per le campagne emiliane prima della partenza per Roma. Una risposta, quantunque sibillina, è in una delle ultime conversazioni del poeta: «No, potrebbero essere i ragazzi già morti, questo io pensavo… E del resto qualcuno ha detto che La capanna è una tomba: la tomba dell’infanzia»13.

Il poemetto è suddiviso in tre parti, non omogenee, a cui si aggiunge un Frammento escluso che assume a tutti gli effetti la funzione di quarta parte, dal momento che compare in coda al testo fin dalla prima edizione. Il tema del componimento viene immediatamente individuato, all’atto di ricevere il volume, dall’amico Francesco Arcangeli, che era stato, con Bassani e lo stesso Bertolucci, un assiduo frequentatore delle lezioni bolognesi di Roberto Longhi. In una lettera del ’51, prendendo spunto dalle Georgiche, egli scrive: «… Fugit interea, fugit irreparabile tempus. Ahimè. Tu beato, che proprio da questo passare del tempo, da questa vicenda delle stagioni hai cavato qualche cosa che resterà: è il tema della Capanna indiana, in fondo, non è vero?»14.

L’alternanza e l’incanto delle stagioni, lo spegnersi pacato delle ore del giorno, il repentino mutare delle condizioni atmosferiche sono gli assi lungo i quali l’opera procede. Le pur minime fasi d’azione, e di contemplazione, non seguono una linea temporale definita, ma sembrano piuttosto rincorrersi e affondare l’una nell’altra, secondo un disegno circolare, e vanno a dissolversi in un tremulo alone di indeterminatezza. La prima parte (vv. 1-109) ha per sfondo l’autunno; la seconda (vv. 110-239) inizia con l’inverno, per proseguire poi con la primavera, quindi l’inizio e la fine dell’estate e l’incipiente autunno; la terza (vv. 240-268) termina con un altro autunno dileguante in un altro inverno, stagione che occupa il Frammento escluso e s’apre all’avvento di un nuovo anno15.

Bertolucci sembra in questo voler riprendere la struttura dei due libri di poesia esemplari del primissimo Novecento. A proposito dei Canti di Castelvecchio (1903), così scrive Pascoli all’amico Alfredo Caselli: «C’è, vedrai, nei Canti, un ordine latente, che non devi rivelare: prima emozioni, sensazioni, affetti d’inverno, poi di primavera, poi d’estate, poi d’autunno, poi ancora un po’ di inverno mistico, poi un po’ di primavera triste, e finis»16. In modo ancor più evidente, anche Alcyone (sempre del 1903) si snoda, come si sa, attraverso un percorso stagionale più ristretto ma altrettanto progressivo, che abbraccia un’intera estate, dall’inizio di giugno alla metà di settembre. Fin dalla prima stampa della Capanna indiana vi fu del resto chi ebbe modo di rintracciarvi certi residui dannunziani17.

Ma per il tema della ciclicità delle stagioni e del flusso continuo e tutto interiore del tempo, una più diretta influenza pare piuttosto provenire dai Four Quartets di Eliot, che Bertolucci aveva avuto l’opportunità di ascoltare dalla voce dell’autore stesso al momento di recensirne la registrazione su vinile pubblicata nel 194718. Così infatti la critica anglosassone, sin dal primo apparire dell’opera, ha voluto riscontare, con l’approvazione dello stesso Eliot, una serie di relazioni tra i singoli quartetti, le quattro stagioni e i quattro elementi naturali: Burnt Norton, inizio dell’estate, aria; East Coker, fine dell’estate, terra; The Dry Salvages, autunno, acqua; Little Gidding, inverno, fuoco19. Ed è appunto una meditata riflessione sul tempo ad occupare i celeberrimi versi iniziali del primo quartetto, che qui si riportano in una rara traduzione di Raffaele La Capria:

 

Tempo presente e passato, nel tempo futuro
Sono forse insieme presenti,
E il tempo futuro è già nel passato.
Se il tempo tutto è in eterno presente
Non c’è redenzione nel tempo20.

 

Sembrano coesistere nella Capanna indiana due diverse ma sovrapposte concezioni del tempo: una che si adegua a un moto lineare e cronologico, a una progressione successiva e fatalmente ineludibile degli eventi («sappiamo che c’è tempo, ma che pure / l’anno dovrà morire…», vv. 222-223); l’altra legata invece a un’idea di circolarità, di ritorno perpetuo dell’identico («un tempo / che non finisce mai» vv. 90-91, e più avanti, pressoché identico, «il tempo non finisce mai», v. 149). Entrambe paiono poi riconducibili, sotto il profilo stilistico, «a due diverse strategie compositive: la prima va nella direzione della precisione, della nitidezza, della chiarezza e anche perentorietà; la seconda al contrario va in direzione del vago, dell’incerto, dello sfumato»21. È quella forma di circolarità indefinita già segnalata nella prima sezione dal verso «Qui siamo giunti dove volevamo» (v. 54), poi replicato e posto a conclusione (v. 268), che intenzionalmente riecheggia il medesimo avverbio di luogo del v. 7. In quel «Qui» in effetti spazio e tempo finiscono per convergere, e l’avverbio non indica soltanto l’ipotetica metaforica meta del breve viaggio, ma la demarcazione di una soglia misteriosa, hic locus est, il passaggio di Enea.

Già dal ’55 tuttavia, mentre sta uscendo la seconda edizione della Capanna indiana, Bertolucci inizia e coltivare il progetto di una storia familiare di portata ben più ampia. Dal racconto lirico della Capanna indiana, legato a una dimensione soggettiva e intimista egli approda al romanzo in versi, a «quella cosa, La camera da letto, cui tengo tanto, che occupa di continuo la mia mente», scrive ancora a Sereni22, dove l’io è sempre centrale ma allarga la sua prospettiva in direzione del mondo e degli altri. «La cosa», confessa il poeta, «mi tentava. E mi tentava tanto più perché invidiavo da sempre i romanzieri per quel loro personaggio velato e sfuggente, il Tempo»23.

Che le due composizioni siano strettamente connesse l’una all’altra, e che anzi la seconda sia la necessaria prosecuzione della prima, lo attesta l’autore stesso nell’ultimo argumentum della Camera da letto, un conciso ragguaglio degli eventi famigliari intorno al 1950:

È questa per A. una stagione poetica fortunata, che può difenderlo dall’ansia sempre pronta: ha ritrovato, fra memoria e fantasia, quei «ragazzi fantastici, – innamorati di capanne costruite in tronchi giovani». È agli ultimi versi di un poemetto, La Capanna indiana, cartone preparatorio del poema che nascerà più avanti sulla carta, e che qui, sembra essere chiuso. Ma forse non concluso24.

Tuttavia le due opere differiscono decisamente per quanto riguarda proprio la rappresentazione del tempo. Nella Camera da letto esso avanza in modo rettilineo, seguendo un percorso graduale che muove dall’episodio d’esordio, la leggendaria «migrazione dei maremmani» presumibilmente avvenuta nel corso del XVIII secolo, e giunge a quello finale, la «partenza» per Roma nel 1951; e il tempo verbale con cui tutto viene espresso è un presente continuo, che restituisce ogni periodo, ogni istante alla medesima durata. La vicenda della Capanna indiana, s’è detto, riguarda invece la sola circostanza dell’escursione, che neppure copre una giornata intera, ma qui i tempi si mescolano, si sovrappongono, oscillano dal presente al passato al futuro, e poi ancora al passato e al presente, con frequenti e sistematiche anticipazioni e regressioni; è un tempo confuso, sfuggente, come sfrangiato e forse, con segreto timore, perduto. Mettendo a confronto i due libri, Bertolucci sostiene che «il poemetto è una metafora stretta, chiusa, intoccabile, del tempo, mentre il romanzo è un tentativo di restituirlo, il tempo, nel suo fluire ininterrotto, senza fine»25.

Nella Capanna indiana, è stato osservato, «il tempo principale è il presente con il quale il racconto si apre, ma questo tempo si dilata accogliendo il futuro e il passato nei momenti in cui scatta la rêverie. Il continuo passaggio temporale finisce per turbare la linea narrativa facendo letteralmente perdere il senso razionale e progressivo del tempo»26.

L’avvenimento è registrato al presente, ma fin dall’inizio si avverte una sorta di scivolamento spazio-temporale, per cui il «Qui» del succitato v. 7 sembra quasi annullare la distanza tra il punto di partenza, la «casa», e quello di arrivo, la «capanna», suggerendo un’idea di istantaneità sottolineata poco oltre dalla determinazione di tempo, in parallelo e quasi proverbiale, «Ora» (v. 28). La visione dell’imminente ritorno nella casa famigliare, ma come se già fosse già accaduto, viene reso mediante un futuro “prossimo”: «Oh, sarà un tempo così calmo» (v. 33) e «Allora nel silenzio udremo il grido / dei nostri cari» (vv. 38-39). Ma quando i ragazzi raggiungono la meta, «è il tempo più dolce dell’anno» (v. 49), di nuovo al presente. E poi il tempo deborda, si espande, esprime con l’imperfetto la sua imprecisata continuità, cosicché ora «La casa si vedeva appena» (v. 62). Quindi è ancora il presente nell’impressionistica retrospezione su alcuni dettagli domestici – una mosca, una ragazza infreddolita, una finestra aperta – dove ogni attimo trasfonde dentro un altro. Perché «il tempo passa» (v. 78), eppure è «un tempo / che non finisce mai» (vv. 90-91) e che proprio per questo si sgrana e si dissolve nell’oblio.

La seconda parte si apre con una proiezione al futuro, la rêverie di un’altra improvvisa e spensierata fuga alla volta della capanna, quando «Verrà l’inverno» (v. 110) e «la porta / di casa s’aprirà con molti gridi, / il crepuscolo entrando negli anditi / lunghi si scontrerà con i ragazzi» (vv. 114- 117). Effimera immaginazione, della quale soprattutto viene colto il languido svanire: «Breve gioia, ormai / sei consumata al finire d’un giorno, / chi sa quando, ieri o domani, / nel tempo che l’inverno declina» (vv. 131- 134). Ma «Le stagioni vengono e vanno, maggio / è tornato» (vv. 135- 136), sempre al presente, perché, ribadisce il poeta, «il tempo non finisce mai» (v. 149) e «Una giornata è uguale all’altra» (v. 150). E poi nell’«ora di prima / estate, uno dietro l’altro, muti» (vv. 169-170) ecco di nuovo i due ragazzi – ma prima o dopo? – a ripercorrere forse lo stesso cammino, come rapiti dall’ignota formidabile sensazione «di quell’eterno chi ci strazia» (v. 189). Subitamente, ma ancora al passato, essi riprendono – ma prima o dopo? – la via del ritorno: «e nel confuso margine il sentiero / ci riprese fidenti: fu una corsa / nel tempo del mattino umido / di rugiada e di voci familiari» (vv. 192-195). E mentre sono intenti ai cambiamenti del cielo nel lieve susseguirsi delle ore, affiora in loro la nostalgia struggente di un’esperienza irripetibile, di un tempo che credono ormai perduto: «Mai più pensammo, mentre il mezzogiorno / s’animava d’intorno, rivedremo / un luogo così dolce, e ci prendeva / fastidio della vita» (vv. 200-203), e «sentivamo / che il giorno andava mutando di volto» (vv. 204-205), «Quando venne il tramonto» (v. 209). Intanto scorrono i mesi sullo sfondo di quel paesaggio di cui i ragazzi conoscono ogni tratto, sempre uguale e sempre rinnovato. «Come agosto finisce» (v.214) ecco dunque «che l’autunno / sta per venire» (vv. 216-217) ed essi già vivono la rassegnata certezza «che pure / l’anno dovrà morire» (vv. 222-223), mentre intorno a loro, nel nebuloso presagio degli anni a venire, «tutto parla / d’una partenza prossima, un addio» (vv. 227-228). Ma le cose che sembrano smarrite sono destinate a tornare, a riemergere dalle latebre più nascoste della coscienza, perché «La memoria è una strada che si perde / e si ritrova dopo un’ansia breve» (vv. 229-230).

L’immagine dell’uccello migratore che inaugura la terza parte del poemetto può essere dunque un’allusione autobiografica, nemmeno troppo velata, all’ormai prossimo distacco dalla propria terra, dal vero «luogo / del nostro cuore» (vv. 247-248). La «capanna / deserta» (vv. 243-244), che adesso risulta come “spezzata” dalla fine del verso, diviene così il simbolo concreto dell’abbandono. Eppure quel luogo è destinato a rimanere indissolubilmente inciso nella memoria e nell’anima del poeta migrante, anche quando egli si troverà, come l’uccello, «in lontane città distese, fiumi / più ampi che da noi nell’imminente / oscurità dei ponti e delle torri» (vv. 254-256). E il legame quasi ombelicale con le origini è come suggellato dall’iterazione dell’avverbio «Qui» ai vv. 251 e 256, ripreso, come a chiudere il cerchio, dai versi iniziali. Ma se là il movimento si svolgeva lungo l’itinerario definito che dalla rassicurante casa conduceva alla capanna, altrettanto rassicurante perché «Qui siamo giunti dove volevamo» (v. 54), ora quel medesimo verso, ripetuto anche alla fine (v. 268), sembra voler alludere a una sorta di spaesamento e prefigurare uno spazio nuovo e sconosciuto, un misterioso inquietante altrove.

Ma nell’inverno del Frammento escluso la vertigine dell’ansia sembra attenuarsi. Prevale un sentimento di unanime calore, un trasporto amoroso che tutto appiana in una gioiosa simultaneità, poiché «D’ogni istante la mente s’innamora» (v. 269), e «Il tempo / è un battito di minuti che si sente / a intervalli e si perde e ritrova / senza spavento» (vv. 287-290). Il poemetto si chiude con il vagheggiamento di un indeterminato e ciclico ritorno, proteso verso un futuro non più di angoscia ma di serenità. «Allora si sarà aperta l’aria / un’altra volta» (vv. 294-295) e sarà l’ora del tempo ritrovato.

È forse proprio con la Capanna indiana che si evidenzia per Bertolucci un concetto di tempo sempre incerto tra continuità e ritorno, tra movimento circolare e tracciato lineare, tra persistenza e oblio; che è la radice della sua «ansia breve», della costante sensazione di perdita, di vuoto, restituita anche attraverso una sintassi che appare talora irrelata, sghemba, impercettibilmente anacolutica. Ha scritto Pietro Citati, altro amico di lunga data: «Niente, per lui, era più mobile, irrequieto ed affascinante del vierge, vivace et bel aujourd’hui. Ma in tutto ciò che era presente avvertiva subito la ruga, la caducità, che fra poco l’avrebbe consumato e consunto, rendendolo degno del nostro rimpianto»27.

Quel tempo incerto, perduto e ritrovato, può allora essere una specie di difesa opposta alla morte incombente, come anche appare in tanti testi successivi alla Capanna indiana. Tra essi, la poesia non casualmente intitolata Il tempo si consuma, compresa in Viaggio d’inverno, che è il racconto di un piccolo aneddoto famigliare: il poeta entra in una chiesa gremita di folla in cerca del figlio, senza trovarlo. Quando il bambino riappare, l’ansia del padre dolcemente si placa.

 

Così, d’improvviso, in un angolo vicino
alla porta, t’ho ritrovato, quieto
e solo, m’hai visto, ti sei
accostato timidamente, ho baciato
i tuoi capelli, figlio ritrovato
nel tempo doloroso che per me e te
e tutti noi con pena si consuma28.

 

Così la grazia di un semplice gesto d’affetto può consolare, anche per un solo istante, del tempo tormentoso della vita.

Claudio Pasi

 
 
 
 

*    Lo scritto riprende una conversazione tenuta a Pordenone, Palazzo Badini il 9 maggio 2023 sul tema del «tempo in poesia», nell’ambito della rassegna Martedìpoesia.
Per il testo della Capanna indiana e del Frammento escluso si fa riferimento a Attilio Bertolucci, Opere, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano, Mondadori, 1997; così come per gli altri testi dell’autore qui citati, salvo differente indicazione.

 

1    Giuseppe Ungaretti, Note a Sentimento del tempo, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, p. 533.

2    Id., Risvegli, vv. 1-5, Ivi, p. 36.

3    Eugenio Montale, La casa dei doganieri, vv. 10-11, in Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984, p. 167.

4    Attilio Bertolucci, Un inedito proustiano, in Opere, cit., pp. 1047-1052.

5    Id., Carlo Mattioli (in memoriam), Ivi, p. 424; la poesia fa parte della raccolta La lucertola di Casarola (1997).

6    Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni, prefazione di Giovanni. Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 136.

7    Giacomo Leopardi, A Paolina Leopardi – Recanati, Pisa 2 maggio 1828, in Id., Tutte le opere, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1976, vol. I, p. 1311.

8    Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia, cit. p. 158. La lettera reca la data del 5 dicembre 1948.

9    Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre, La capanna indiana, traduzione di Giorgio Bassani, in Romanzi francesi dei secoli XVII E XVIII, a cura di Michele Rago, 2 voll., Milano, Bompiani, 1951.

10    Cfr. «Poesia», IX, dicembre 1948, pp. 143-150.

11    Ivi, pp. 143-144, p. 148, p. 149. I corsivi sono miei. Gli originali: «—It seems a day / (I speak of one from many singled out) / One of those heavenly days that cannot die; / When, in the eagerness of boyish hope, / I left our cottage-threshold, sallying forth / With a huge wallet o’er my shoulders slung, / A nutting-crook in hand; and turned my steps / Tow’rd some far-distant wood…» (Nutting, 1800); «… and now the eastern sky / Was kindling, not unseen, from humble copse / And open field, through which the pathway wound, / And homeward led my steps…» (The Prelude, 1850); «And with their freight homeward the shepherds moved / Through the dull mist, I following…» (The Excursion, 1814).

12    Cfr. Attilio Bertolucci, Opere, cit. p. 816; gli Argumenta, ovvero i sommari dei vari capitoli, vennero predisposti dall’A. in occasione della versione filmata del poema, per la regia di Stefano Consiglio e Francesco del Bosco, trasmessa dalla RAI nell’estate del 1993.

13    Attilio Bertolucci, Paolo Lagazzi, All’improvviso ricordando. Conversazioni, Parma, Guanda, 1997, p. 46.

14    Lettera di Francesco Arcangeli ad Attilio Bertolucci, 27 luglio 1951, in Attilio Bertolucci, Opere, cit. p.LXXV.

15    Cfr. anche la nota, a cura di Gabriella Palli Baroni, Ivi, p. 1455; successivamente ripresa dall’autrice in Autonomia del tradurre in Attilio Bertolucci: Toulet, Keats, Wordsworth e T.S. Eliot, in «OBLIO» – Periodico trimestrale on-line – Anno XI, n. 42/43, Autunno 2021, p. 158.

16    Giovanni Pascoli, Castelvecchio di Barga, a Alfredo Caselli, Lucca, 7 agosto 1902; cfr. Carte pascoliane della Biblioteca Statale di Lucca, segnatura: MS_3578_05_065.

17    Cfr. Geno Pampaloni, Attilio Bertolucci. «La capanna indiana», in «Belfagor», n. 6, 1951, p. 736: «Il D’Annunzio che qui è presente, oltre a qualche cenno del Novilunio, è tutto della Sera fiesolana, e di Lungo l’Affrico, cioè il D’Annunzio più spirituale, più notturno, e più morbido».

18    La recensione di Bertolucci compare come: Appunti. a.bert., [su] Thomas Stearns Eliot, Four Quartets (1936-1942), vinile del British Council [His Master’s Voice 1947], lettura del poeta, in «Paragone», anno I, n. 2, febbraio 1950, p. 64.

19    Cfr. Thomas S. Eliot, Quattro quartetti, a cura di Attilio Brilli, traduzione di Filippo Donini, Milano, Garzanti, 1976, nota a p. 83.

20    L’originale del celeberrimo incipit: «Time present and time past / Are both perhaps present in time future, / And time future contained in time past. / If all time is eternally present / All time is unredeemable» (Burnt Norton, vv. 1-5).
Immediatamente dopo la liberazione di Napoli, Raffaele La Capria e Tommaso Giglio pubblicarono un’esile plaquette con una versione di Little Gidding (Napoli, Edizioni Ali, 1944), poi riapparsa sul «Politecnico», n. 20, 9 febbraio 1946, p. 3.; East Coker, sempre a cura di La Capria e Giglio, esce in «Sud», n. 5-6, 15 marzo 1946, p. 7. La Capria completò successivamente la traduzione dell’opera che circolò tuttavia in edizione ciclostilata (la copia cui si fa riferimento è conservata presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna, Fondo Anceschi, s. d. ma 1957). Solo in tempi recenti essa fu ristampata in edizione di pregio: T. S. Eliot, Quattro quartetti, traduzione di Raffaele La Capria, illustrazioni di José Muñoz, CD accluso con voce recitante di Paolo Bessegato, Salò, Enrico Damiani Editore, 2013.
Così lo scrittore napoletano ricorda quel periodo: «Traducendo Little Gidding in mezzo a quel frastuono ci pareva di mettere un po’ di ordine nelle nostre emozioni (ed è questo il compito della poesia secondo Eliot), di vivere ‘nel’ mondo con distaccata-appassionata partecipazione (ed è un concetto più volte espresso nei Quattro quartetti), e a volte ci è parso persino – in qualche istante, mentre si decifrava un verso più complicato e misterioso degli altri – di percepire quell’intersecarsi del non-tempo nel tempo in cui tante volte Eliot allude nella sua poesia» (Raffaele La Capria, Cronologia, in Id., Opere, a cura di Silvio Parrella, vol. I, Milano, Mondadori, 2013, p. LXIV).

21    Fabio Magro, Una lettura della «Capanna indiana» di Attilio Bertolucci, in AA. VV., Sulla famiglia Bertolucci. Scritti per Attilio, Bernardo e Giuseppe, a cura di Giada Coccia, Mariantonietta Confuorto, Fabiana di Mattia, Irene Martano e Francesca Santucci, Roma, Ensemble, 2018, pp. 59-86; ora, con il titolo Attilio Bertolucci, «La capanna indiana», in Id., Poesie italiane del Novecento. Nove esercizi di lettura, Roma, Carocci, 2021.

22    Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia, cit. p. 207. La lettera è della primavera del 1955.

23    Così annota l’Autore nel risvolto di copertina della prima edizione della Camera da letto, Milano, Garzanti, 1984.

24    Attilio Bertolucci, Opere, cit. p. 832.

25    Id., I segreti della narrazione, in Gli immediati dintorni. 2. Rassegna di poesia contemporanea, Modena, Mucchi, 1990, p. 10.

26    Fabio Magro, Una lettura della «Capanna indiana» di Attilio Bertolucci, cit.

27    Pietro Citati, Attilio Bertolucci. Un pellegrino guarito dalla letteratura, in «La Repubblica», 22 maggio 2008.

28    Attilio Bertolucci, Il tempo si consuma, vv. 16-22, in Opere, cit. p. 213.