In dialogo: Lorenzo Pataro e Mattia Tarantino


 

Lorenzo Pataro: Se c’è un poeta a cui mi lega un affratellamento e una comunanza che negli ultimi anni ha tracciato nella mia parola orme, deviazioni, intercapedini è sicuramente Mattia Tarantino, ormai amico-amuleto, nella poesia e oltre la poesia, in quegli “interstizi di/Tempo tra i minimi/e i massimi” dove “accade /l ’irreparabile.” Cito non a caso i versi che inaugurano il percorso poetico di Gabriele Galloni per inaugurare a sua volta questo dialogo, perché il solco di questo specchiamento nasce attraverso Gabriele, in qualche modo, un trait d’union che negli anni ha promesso che “Questi anni nostri non avranno male;/ saranno sempre gli anni del Miracolo/ per ogni luce che mi indicherai.” Per molto tempo, infatti, ho guardato con profonda ammirazione il legame che univa Gabriele e Mattia e soprattutto l’esperienza di Inverso-giornale di poesia da lontano, ho pubblicato con loro alcuni inediti e ho cominciato a leggere Gabriele prima e Mattia poi, trovando in loro non solo temi che negli anni non avevo avuto il coraggio di traghettare “nell’inganno della soglia”, ma soprattutto un uso sapiente della metrica, una naturalezza del verso, una parola mai puramente esornativa, di maniera, intellettualistica che nella mia generazione non avevo ancora trovato in nessuno.

Dopo la scomparsa di Gabriele il legame con Mattia si è intensificato e in qualche modo ho sempre pensato che sia stato Gabriele a lasciarci in eredità una promessa di bene e di luce, per continuare, nel suo nome e nella sua traccia del passaggio, quella traiettoria che era appena iniziata.

Ho conosciuto Mattia con Fiori estinti e in quei versi di angeli, rovesciamenti, sangue, morti, stelle a cui impiccarsi, ho trovato dimora, ho sentito un fuoco che pronunciando lo smarrimento trovava allo stesso tempo casa, abitando il margine e nel margine che trema trovare una legge e la sua estasi, il suo continuo rinnegamento e la sua continua redenzione, guardando i deserti avanzare e anche se le vene scoppiano continuare a cantare, con “il cielo intrecciato/ alle ossa, e vene/ storte annodate alle stelle”, in compagnia di un passero di ronda che annuncia la catastrofe cantando. Questa immagine assomma in maniera chirurgica ciò che la parola di Mattia mi ha sempre comunicato, un richiamo verso il disfacimento, la dissoluzione, l’impermanenza, tutto ciò che rovescia e chiama verso un’adunanza obliqua, ma pronunciando questa smarginatura, questa frantumaglia con la dimensione del canto, unendo il tragico alla sua riproducibilità, alla la sua memorabilità, come a esorcizzare il male con una preghiera, un rituale da dimenticare a memoria e ogni volta tornare a imparare come se fosse la prima volta, come le parole segrete delle fattucchiere che in alcuni paesi del Sud, nella notte di Natale, tornano a ripetere durante la messa notturna e a loro volta insegnano ad altri, che durante quella stessa messa memorizzano e danno un imprimatur. La parola di Mattia ha qualcosa di magico, ancestrale e viscerale, qualcosa che intercetta la formula del mondo, è una parola oracolare, misterica, vaticinante, che abita la soglia tra il visibile e l’invisibile, una parola onesta eppure indeclinabile se non nel verso stesso, una parola che cerca la sua infallibilità, che cerca i segreti inaccessibili dei gatti. Nella sua poetica mi sono riconosciuto, mi sono sentito chiamato e a un certo punto direi che attraversandola ho lasciato che anche la mia parola abitasse i luoghi che la sua aveva abitato, luoghi che pensavo di aver perso e che grazie a lui ho ritrovato.

E ora mi rivolgo direttamente a lui chiedendogli quanto si riconosce in queste parole e quanto la sua voce sia cambiata dall’esordio Tra l’angelo e la sillaba fino a Fiori estinti e all’ultimo L’età dell’uva, gli ultimi dei quali ho iniziato ad attraversare. Quanti Mattia hai attraversato e quale solco in questi anni pensi di aver generato, quale sbilenca traccia, quale inversione? E quale è il passaggio di testimone che senti aver avuto da Gabriele?

 

 

Mattia Tarantino: Vorrei provare a dire una cosa: la poesia è un discorso strategico. Certo, non è detto sia solamente questo. Intendo dire che il discorso della poesia è collocato tra due pieghe del medesimo campo: da un lato è costantemente ricondotto alla sua inutilità, ornamentalità o, per contraccolpo, alla sua necessità, indispensabilità. Si tratta di due facce della stessa medaglia: è così che viene reso innocuo, neutralizzato. Dall’altro lato, il discorso della poesia è iper-legittimato. Quanto viene detto in versi è immediatamente salvato – reso intatto – in una critica formale o catturato in un processo dialettico, e così ancora una volta reso innocuo. Questa iper-legittimazione, tuttavia, è proprio la ragione per la quale si dice che siano più i poeti che i lettori: è un marchio di esistenza, un taglio sul polso; un congegno, più propriamente, che permette di dire “anche”. “Ci sono anch’io, esisto anch’io”. Una piccola parentesi. Come ho avuto occasione di dire a qualcuno, per me il problema non si pone: chiunque si definisca poeta è un poeta, e va riconosciuto come tale. Anzi, ce ne sono perfino alcuni che lo sono e non lo sanno. Dopodiché si può discutere, si può sostenere qualcuno sia un pessimo poeta. Riconoscerlo, però, è il primo passo: da un lato perché non possiamo stabilire chi lo sia e chi no, e il rischio sarebbe che a deciderlo siano le istituzioni – potrebbero “laurearli” – o i lettori, o la critica; dall’altro perché c’è spazio per tutti, e che si discuta continuamente di “canone” mette bene in luce quanto in questo spazio di legittimità, apertissimo, ci si possa arroccare, e cercare di conservare la propria posizione con uno sguardo allo spazio del vicino. Il punto è che, dopo il Giudizio, se saremo salvati lo spazio del vicino dannato ci verrà conferito egualmente e, viceversa, se i dannati saremo noi è a noi che toccherà lo spazio del vicino salvato. A cosa serve quello spazio? Precisamente a stiracchiarsi. È il segreto del Lebenstraum: si tratta di comodità.

Ora, credo Fiori estinti abbia prodotto qualcosa di simile. Intendo dire che ha a che fare con la legittimità. Tu sei una delle persone che mi ha scritto dopo averlo letto. Ricordo ancora la tua lettera. Credo di avervi deluso tutti, a dire il vero. Cercavate l’enfant prodige, il misterico, il vaticinante. Mistero e vaticinio hanno un prezzo, però. Frugare agli angoli della visione… una volta mi è stato detto che, a furia di sporgersi al fondo, di investigare, il rischio è quello di non vedere altro. È vero, e credo ora lo sappia anche tu. ‘Investigare il fondo’… ma di che stiamo parlando? ‘Investigare il fondo’ è una cosa poliziesca, indagini da Polizia dell’Abisso. C’è anche altro. Linee di superficie, ruote, crocevia. Semplicemente strati e piani, intensità. Mi chiedi che solco ho tracciato, ma lo sai meglio di me. Fiori estinti ha legittimato tutti quelli che vivevano o cercavano lo stesso regime – registro – di visione. Per mesi a casa sono arrivate lettere, quasi ogni giorno, come la tua. Centinaia e centinaia di persone, centinaia e centinaia di lettere e poi di note, commenti, pagine di articoli. È bello, sì, all’inizio. A un certo punto, però, ti accorgi di non avere più niente da dire – o di voler dire altro. Ti accorgi che vanno bene il mistero e il vaticinio, ma la tua vita non si esaurisce nella visione, nell’allucinazione. Non puoi rimanere intrappolato nell’immagine che ti è stata cucita addosso, e lo sai che sei stato tu a dare via ago e filo. Non ho scritto un verso per anni. Quando è uscito L’età dell’uva il libro era già pronto da tantissimo tempo. Gran parte delle poesie le avevo spedite all’editore perché uscissero con Fiori estinti, ma il volume sarebbe diventato troppo grande, tra costi e tiratura. Iniziai a lavorarlo la notte prima del funerale di Gabriele. Che eredità mi ha lasciato, vuoi sapere. Ma che eredità doveva lasciarmi? “La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”. Quando gli telefonai per parlargli di quest’idea che avevo, di Inverso… sono passati cinque anni e un migliaio di articoli. Penso abbiamo dato spazio a tante voci che di spazio non ne avrebbero trovato, come te. A un certo punto non ho capito più nulla. L’Europa, l’America. Ho iniziato a leggere ad Aversa, da “Quarto Stato”, con Ernesto, il libraio, che mi incoraggiava, e qualche anno dopo c’erano centinaia di persone, c’erano i palchi in Europa o fotografie giganti proiettate in America e le poesie che leggevo mi pagavano da bere, le sigarette, ed erano canzoni, murali, credo perfino tatuaggi. Qualcosa è toccato anche a te, adesso, e toccherà ad altri. In primavera abbiamo portato in Italia un’intera generazione di poeti europei. Credo sia questo il solco, “gli anni del Miracolo”: questa rete, questi incontri, poco altro. Ora che non c’è più da sgomitare, però, che ho avuto quel che ho avuto, credo di aver imparato una cosa importante: c’è bisogno di pacatezza. Non fraintendermi, ci sono i fascisti in città, c’è bisogno anche di altro, di una precisa violenza. Adesso ho i capelli corti, però, e qualcos’altro da raccontare: le vite, la mia, la tua, quella degli altri. “Dobbiamo pagare il debito / che nessuno ha contratto”. Dobbiamo capire, forse, a cosa assomigliamo – a cos’è che non vorremmo assomigliare mai.

 

Lorenzo Pataro: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La conoscenza di sè si dá spesso per sottrazioni, lavorando di cesello a poco a poco ci si rende conto del superfluo, di ciò che non aderisce e scappa via dal setaccio. Nella poesia questo è più vero che in altre forme d’arte. Si impara ad andare verso il nucleo, spesso senza risparmiarsi, si impara l’esattezza (ancora meglio se si scrive in metrica), ciò che basta, spesso a furia di smarginare si rientra poi nei solchi, si impara a cucire la voce con ciò che l’ha prodotta, lo spazio bianco come possibilità in nuce di fare scattare un bagliore inatteso. Cerco sempre di non assomigliare ad una versione di me che mi vorrebbe algido, troppo chirurgico nella sua erudizione, cerco sempre di far uscire il sangue, se possibile, nei suoi fiotti riconoscermi sempre. Riscontro troppo spesso nella poesia contemporanea un certo atteggiamento di posa che è a quanto di più lontano vorrei assomigliare, un gioco spesso di scatole cinesi in cui ci si incastra e si finisce per esserne schiavi, dando alla parola un significato troppo spesso metaletterario, iperconsapevole della sua altezza, del suo speciale marchio, una parola che perde la sua immediatezza, si fa ipercolta, ipererudita, come a voler dimostrare continuamente qualcosa. Poco aderente alla propria vera lingua matrice. Una parola che non passa al setaccio del proprio corpo, ma sembra più un’eco, una parola che si fa maniera, in cui non scorre il fango della vita. Una parola che non si sporca, che rimane continuamente intellettuale, che esplora campi disparati del sapere solo per darsi un tono. Mi sento straniero in una poesia che non mi fa tornare all’origine, al fuoco, a ciò che di più sacro c’è nel mondo.

Vorrei invece sempre più sporcarmi con le vite degli altri, se possibile. Con i quesiti di sempre, con tutte le fragilità umane, la percezione della morte, il sentimento del tempo, non voglio ancora dialogare con ciò che sta sostituendo l’umano solo per dimostrare di essere all’avanguardia, voglio ancora dialogare con quell’essenza primordiale che ancora persiste, ciò che è la nostra culla, con gli altri infanti del mondo, voglio sporcarmi e cercare di raccontare davvero ciò che pulsa, le stagioni, le bestie, gli altri cuori come il mio. E vorrei cercare di farlo nella maniera più autentica possibile, attraverso un processo di mimesi, una parola che rispecchia l’essenza di ciò che vuole essere eco, che non frapponga tra le cose e i nomi una barriera, un limite, come a porre una distanza già nel metodo d’indagine. Credo fermamente che alla propria lingua non si debba sfuggire. E che pure bisogna difendere la propria voce. Se si è anguilla, come un’anguilla bisogna parlare. Se si è leone, lo stesso. Eppure credo che una parola che voglia sporcarsi con le vite degli altri, con il magma, debba aderire all’incandescenza senza paura di mostrarsi fallibile, arrivando come un telescopio a dare una visione nitida di ciò che osserva. Una parola non per forza ossificata, ma che si spogli del peso troppo spesso ingrombrante dell’io, di un certo moralismo con cui si guarda il mondo, che si spogli delle sue convinzioni per lasciarsi afferrare dal contingente e in esso scorrere, farsi traforare, farsi bere, lasciando aperte le vene, per cambiare di volta in volta sangue.

 

Mattia Tarantino: Come in ogni tecnologia, nella poesia sono in gioco, come urti o coincidenze, prove, collaudi, deviazioni e verifiche. Verificare come evento, avverare. Verificare come registrazione dell’evento, del suo avverarsi. In questo senso, la verità si esaurisce nella registrazione e nell’archiviazione di una possibilità divenuta attuale. Ancora in questo senso, verità e attualità si esauriscono l’una nell’altra e, perché una nuova fondazione sia possibile, qualcosa come una mera possibilità è conservata, intatta, nel divenire-attuale per essere, poi, separata dall’atto una volta compiuto, oramai registrato. La storia della poesia è la storia di questa possibilità ogni volta preservata intatta, ogni volta separata. Così come sembra, alle volte, coincidere con il luogo del proprio occultamento e della propria manifestazione, la poesia custodisce, in questa relazione, la possibilità di uno scarto, di una non-coincidenza. Appare, allora, come il discorso in grado di celare quanto manifesta e di manifestare tutto quanto è celato. Allo stesso tempo, sembra in grado di compiere un movimento ancora differente che le garantisca di installarsi, rispetto al proprio luogo e alla relazione che articola con questo, in altre posizioni, adiacenti, laterali. Nella poesia non c’è in gioco nessuna origine, nessun destino. Il suo discorso, piuttosto, è dispiegato su linee di superficie, ripiani manifesti e, tuttavia, costantemente revocabili. Abbiamo a che fare, probabilmente, con la manifestazione di una revocabilità: la voce, ovvero, appare qui come ciò che in questa forma fonda e, insieme, avanza del linguaggio. “Il linguaggio ha luogo nel non-luogo della voce”. La nostra parola, la mia come la tua come quella degli altri ‘cani romantici,’ come una necrosi bianca nella generazione, nel senso, è chiamata ad abitare – a produrre – questa crepa, questo varco.

 
 
Le foto di copertina sono di Dino Ignani