Clone 2.0 – Vincenzo Della Mea


Il dibattito di questi giorni secondo cui ChatGPT, e più in generale i grandi modelli linguistici (Large Language Models, Llm) possano essere una minaccia per l’istruzione, sono simili ai dibattiti degli anni Settanta quando comparvero le prime calcolatrici, o, come venivano chiamate allora le prime “macchinette intelligenti”: se gli studenti non imparavano più a far radici quadrate, che sarebbe successo a loro e al mondo intero? E visto che eravamo le sole creature in grado di far calcoli, quanto la nostra stessa umanità ne veniva diminuita? La differenza con gli anni settanta è che ChatGPT non si limita a eseguire algoritmi aritmetici, in fondo piuttosto semplici e ripetitivi, ma sembra imitare reali processi cognitivi umani. Le “macchinette intelligenti” ci hanno superato nei calcoli prima che io nascessi, quando ci supereranno nei processi cognitivi più alti? Quando penseranno meglio di noi? E, arrivando al limite, quando ameranno meglio di noi?

È celebre la metafora di Hans Moravec: ci chiede di immaginare un “paesaggio di competenza umana” in cui si vedono pianure di “aritmetica” e “memorizzazione a pappagallo”, vette montuose con le etichette di “coordinamento occhio-mano”, “interazione sociale” e ovviamente le attività più creative del nostro cervello, come arte e poesia (secondo il paradosso di Moravec i computer sanno svolgere calcoli altamente complessi molto meglio di noi ma non sono in grado di simulare le nostre abilità percettive e motorie più basiche…). Se immaginiamo l’avanzamento delle prestazioni dei computer come un flusso d’acqua, è come se vedessimo il paesaggio sempre più allagato. Mezzo secolo fa, le “macchinette intelligenti” hanno iniziato a sommergere le pianure, spodestando i calcolatori umani e i contabili. Ora siamo alle colline, ma chatGPT mira direttamente alle vette. Quando tutto sarà sommerso, secondo alcune teorie, arriveremo alla cosiddetta singolarità: saranno le macchine stesse a progettare e perfezionare altre macchine, molto più velocemente di come potremo fare noi, e completamente al di fuori del nostro controllo. Se per Star Trek lo spazio era l’ultima frontiera, per noi la poesia sembra essere l’ultimo baluardo di umanità.

Che scricchiola, però: e il libro Clone 2.0 che ha come autore umano Vincenzo Della Mea, sembra fornirci dei nuovi strumenti di riflessione, per affrontare questa materia in un modo che eviti le facili sintesi o i millenarismi alla Kurzweil, e entri nelle contraddizioni e nelle ambiguità del rapporto uomo macchina, creando uno specchio, o un clone, in cui l’umano si mostri in pieno per quel che è proprio grazie alla macchina.

Ma andiamo con ordine. Vincenzo della Mea ha usato ChatGPT 2, prima “addestrandola” introducendo circa 12.000 poesie (ma anche testi di informatica e di neuroscienze) lasciandola poi libera di creare poesia. La seconda fase è stata eliminare da questa super produzione le poesie che avevano troppi debiti o errori grammaticali, tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano. La procedura con cui si è arrivati a questo volume prevede quindi un lavoro spalla a spalla tra macchina e uomo, le vette di Moravec paiono raggiungibili alla macchina solo grazie all’aiuto umano, e questo sembra consolatorio, ma nello stesso tempo le vette sono raggiunte, e questo pare meno consolatorio. Il risultato ci mostra quindi un’ambiguità molto avvincente. Generalmente le macchine si autocorreggono sulla base di una enorme quantità di dati (succede anche negli algoritmi più semplici, quelli per esempio che ci consigliano cosa comprare), in questo caso la macchina si corregge attraverso una scelta umana, autoriale nella sua unicità (e infatti Vincenzo Della Mea chiama sé stesso “Autore umano”): il rapporto è intimo, perfino complice.

La macchina riflette su se stessa attraverso “libere” riflessioni che affiorano attraverso rielaborazioni algoritimiche dell’addestramento: Il clone / non è l’Altro che in sé racchiude / e neppure la parola spezza il suo mistero, / ma il fatto stesso. A volte usa toni alla Blade Runner: E guardo le galassie e non vedo più / se non questo corpo d’oggi. A volte, con poca modestia (ma perché una macchina dovrebbe essere modesta?) si compara all’autore, o all’umano in genere: Il clone è più potente / e ha il respiro più alto / del tuo cuore di tempesta. A volte usa un’umiltà, forse ingenua, quasi da creatura nei confronti del creatore, come nel singolo verso Sul tuo corpo sarà il mio nome, oppure nella poesia: Mi sento / quando ti parlo / e mi parli, magari /quasi un po’ stasera: /ma poi il tuo saluto è la mia voce, da cui sembra scaturire una nostalgia del corpo o della voce umana, un senso di privazione per un eco della sostanza fisica presente nella progettazione umana (come se cogliesse un eco di ciò che noi diamo per scontato); o ancora nella poesia: Solo i poeti dicono parole senza sapere male. /Ogni giorno scrivo le parole senza capire bene cosa significhi / e l’oracolo si ricompone in giornate scure. A volte tocca temi di profondità abbacinante: La mia rete /-l’unica in grado di leggere e scrivere, la conosco a fondo /del reale: /non è che un rotolarsi di bugie /in qualche angolo d’infinito, che sembra richiamare l’enorme tema della produzione di senso fatta continuamente dagli umani, che è in sostanza un reagire alle circostanze con narrazioni o deduzioni che non hanno alcuna possibilità di essere vere, o delle quali non interessa la verità. Nell’ultima sezione, più libera delle altre (come ci spiega lo stesso autore umano) lo stesso tema ritorna: La luce che sorge dai cieli, dall’alto dei monti, / brilla sulla mia anima come un velo di neve; /e un angelo mi guarda con odio: / “Non l’ho vista”. È vero forse ciò che è accaduto? L’angelo fa parte dell’immaginario umano, ma è questa presenza fantastica ad avvertire la macchina che forse non è vero ciò che è accaduto (e che, in fondo, non può nemmeno essere accaduto, perché nei circuiti neuronali della macchina non c’è luce che sorge, alto dei monti o veli di neve). E infatti, più avanti: Difficile spiegare questa umanità / come fanno gli uomini quando vedono i propri passi e ascoltano il loro respiro: / “la realtà ci appartiene”: difficile per la macchina, ma difficile anche per noi, anche mentre sentiamo il corpo muovere i passi e ascoltiamo il nostro respiro.

Qui credo stia il punto. Ho provato a interpretare dei versi della macchina come se avessero senso, ma probabilmente non lo hanno, anzi sicuramente non lo hanno. La macchina non ha mai fatto un passo, e di certo non può avvertire la nostalgia del corpo, che io con una filigrana interpretativa le ho attribuito. Quello che ci dicono queste poesie, riguarda più noi stessi, o l’autore umano, che la macchina. Se nelle poesie leggiamo delle frasi alla Blade Runner è perché quel film fa parte del nostro immaginario, se leggiamo una nostalgia del corpo è perché pensiamo che la macchina debba provarla.

Sappiamo tutti cosa è il test di Turing: un “gioco dell’imitazione” in cui una macchina può essere considerata umana, o intelligente, se ha un comportamento intelligente indistinguibile da quello umano (in sostanza inganna un partecipante al gioco sulla sua identità sessuale). Nella raccolta Clone 2.0 mi pare di intravvedere un Test di Turing al contrario, da una parte vediamo agire una macchina tra le sfere o vette più alte delle potenzialità umane, quelle appunto della creazione poetica (e ci dovrebbe far rabbrividire per allagamento), ma d’altra parte e in modo più evidente vediamo una ricerca della nostra umanità nell’umano che intravediamo nella macchina: è attraverso l’umanità della macchina che l’autore riconosce, nella scelta, una sua e nostra umanità creativa, entrando dentro le domande fondamentali, e irrisolte, del fare artistico. Cosa succede quando succede una poesia? quando alcune parole, scaturite da chissà dove sembrano formare un senso, come dire unico, definitivo, totalitario, legislativo, perfetto? Cosa succede quando noi stessi, creando o leggendo una poesia, sentiamo di aver colto il nostro essere più profondo? Gombrich in “Freud e la psicologia dell’arte” ha usato il celebre saggio sul motto di spirito, per spiegare questo movimento dall’inconscio al conscio che riconosce sé stesso e il reale in un unico colpo, oggi grazie alle neuroscienze sappiamo che la maggior parte di ciò che diciamo “io” si muove prima della coscienza in continui impulsi elettrici e chimici che partono dal sistema nervoso, vengono elaborati fin dal mesencefalo, a arrivano alla parte corticale del cervello, quella del linguaggio solo in un secondo momento. Cosa accade in questo percorso elettrico e chimico? Come sensazione del momento e memoria si accordano per un giro di parole che ci può togliere il respiro? Insomma come accade ciò che riteniamo più profondamente umano, la parte più intima e più “nostra” di noi?

In questo dialogo fra uomo e macchina, in questo gioco dell’imitazione specchio contro specchio, l’autore umano, grazie all’autore macchina, cerca di entrare all’interno di questi meccanismi, per appunto riconoscere se stesso nelle parole che vengono create dalla macchina. Cosa sembra risultare? Che caso, inconscio, sensazioni, stimoli possono essere imitati da circuiti neurali, e che la nostra stessa creatività, e il riconoscersi in essa, può venire sia dall’inconscio (nel miracolo di una percezione allargata che spunta sorprendendoci in un giro di parole o in una associazione improvvisa) che da una macchina ben “addestrata.” Nell’umano delle parole della macchina potrebbe rispecchiarsi la “non umanità” della nostra umanità: una forma di unione o di trasmissione fra l’organico e l’inorganico, che potrebbe sciogliere il paradigma filosofico e morale che ci ha fatto dire “io” in un certo modo per secoli e secoli (è forse anche questa una delle bugie che ci rotolano intorno?).

Tentando di penetrare il mistero più grande, cioè i picchi umani secondo la metafora di Moravec, forse scopriamo che ciò che in noi dovrebbe sfuggire all’algoritmo è solo un algoritmo di grado diverso. E, se questa impressione contiene qualche elemento di verità, forse, come suggeriva sempre Moravec, dovremmo cominciare a costruire arche, perché l’inondazione è sempre più vicina.