Tempo del mondo, memoria e poesia


 

Pochi giorni fa stavo parlando con un amico, che insegna Storia moderna e che mi diceva, non proprio allegramente, che gli studenti in generale non riescono più a immaginare una condizione esistenziale in cui nelle case di moltissime famiglie gli oggetti presenti si contavano in poche decine di unità. Né riescono facilmente a immaginare un’esistenza priva di telefono, frigorifero, cellullare e ovviamente computer; cioè una forma del vivere che chi ha la mia età ricorda con chiarezza, e che è sopravvissuta fino a circa 50 fa. Un paio di anni or sono, durante un esame di letteratura in cui si faceva riferimento al Neorealismo italiano, ho colto un’evidente incertezza storica in una studentessa; e quando le ho chiesto in che anno pensava fosse terminata la seconda guerra mondiale una simile incertezza mi è parsa ancora più evidente e ancora meno tollerabile. Ma mentre glielo dicevo, proponendole di ripetere l’esame nel semestre successivo, ho letto nei suoi occhi una sostanziale incomprensione, che ho poi affidato a una breve poesia:

 

Schizzo metropolitano

 

C’era questa strada lunga, una giornata cinerina
di stanchezza, il freddo. E la ragazza, poco prima,
incerta sulla data in cui era finita la guerra,
con l’aria di chi pensa che non sarà poi
una cosa tanto importante, che domanda stronza mi fai,
per un esame di lettere sul Neorealismo italiano.
Il ‘43, il ’45, cosa cambia? Cosa vuoi?
 
Così camminavo intristito e forse non avrei visto nemmeno
i tre gamaldi che sfrecciavano in bici di dodici, tredici anni
se uno di loro non mi avesse gridato, passando: «ti consiglio
di tingere i capelli!». Un attimo, erano già lontani,
ridevano nel vento coloravano il cielo.

 

Infine, ragionando recentemente con un amico poeta più giovane di me, sono rimasto colpito dal suo stupore nel vedere che per me gli avvenimenti quotidiani e le memorie storiche riescono a dialogare con la scrittura poetica; per lui, mi ha detto, questo è impossibile. E mi ha citato un celebre libro di Baudrillard, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, che era apparso in Italia nel 1993, e l’anno prima in francese. È appena necessario ricordare che quei primi anni ’90, arrivati dopo il decennio del cosiddetto riflusso, avevano immediatamente alle spalle la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’URSS, la prima Guerra del Golfo e, in Italia, la scomparsa del PCI. Proprio in quegli anni stavo provando a scrivere un libro di poesie che avrei poi intitolato Le cose senza storia, alludendo appunto al venir meno della prospettiva storica che aveva caratterizzato il ‘900 e dentro la quale ero cresciuto.

Ora, ripensando agli esempi fatti prima, e cercando di collegarli alla situazione di chi è più giovane di me, o addirittura giovanissimo, mi chiedo: stiamo parlando di un fenomeno generazionale? Il termine “generazione” ha ovviamente una sua precisa valenza anagrafica: ci colloca in una situazione temporale definita, che è difficile e forse impossibile negare. Ma quando questa parola passa dall’anagrafe alla dimensione culturale (e nel caso nostro poetica), io divento diffidente; perché usata in questa accezione più ampia, la parola “generazione” mi sembra innescare un meccanismo deterministico e riduttivo. Ciascuno di noi è nato in un certo momento storico (la sua generazione), cioè in quello che Vittorio Sereni avrebbe chiamato un tempo del mondo. Benissimo. Ma non è poi detto che chi scrive debba accettare passivamente, generazionalmente, quella condizione. Devo aver usato anch’io, quando ero un ragazzo, quell’espressione, forse riecheggiando senza saperlo o volerlo un famoso attacco di Allen Ginsberg; ricordo infatti che avevo scritto un testo, peraltro di scarsissimo valore, che iniziava con “La nostra generazione siamo fiammiferi usati”, o roba del genere. Beh, era una stupidaggine, da molti punti di vista, che non starò neppure ad elencare. C’è invece una frase di Ferruccio Benzoni (sta in un’intervista del 1996, raccolta da Claudio Castellani) che mi ha sempre molto colpito:

Ma noi andavamo a cercare i padri che noi volevamo per sostituirli con padri che non ci stavano bene. Ci siamo scelti i padri che amavamo e che meritavano il nostro rispetto perché rappresentavano una certa pulizia.

Queste parole suggeriscono che è possibile scegliere, che è possibile evadere dalla gabbia anagrafica; che è cioè possibile allontanarsi dalla propria generazione per costruirsi un diverso modo di essere e di conoscere, recuperando una specie di densità delle cose nel tempo. A meno che, naturalmente, non si voglia soltanto usare il concetto di generazione come una specie di testa di ponte, di forza propulsiva per conquistare qualche (misera) forma di potere poetico-editoriale: fenomeno ben noto, che ogni tanto riappare con vigore e che personalmente mi intristisce. A un simile uso improprio e furbesco della “generazione” potrei opporre un’altra frase di Benzoni, del resto assai nota:

L’importante per noi non era prevalere come poeti, ma disegnare l’idea e il sentimento di un’amicizia che avrebbe dovuto durare per tutta la vita e invece non è durata.

Un’utopia, per di più un’utopia fallita, visto che l’amicizia «non è durata»? Forse; e sento bene le risatine di scherno di coloro che interpretano invece la poesia come una carriera da percorrere sgomitando. Ma a me sembra preferibile aver tentato di camminare verso un orizzonte utopico, per quanto irraggiungibile. Avessi voluto far carriera, avrei scelto qualche attività più redditizia della poesia.

E la memoria, in tutto questo? La memoria, lo sappiamo tutti, è minacciata: quella collettiva, che chiamiamo di solito Storia, e quella soggettiva e privata. Un Alzheimer non biologico ma culturale (e niente affatto innocente) pervade il nostro tempo, simile alla malattia del sonno descritta da Gabriel Garcia Marquez in Cent’anni di solitudine. Ma appunto in quanto minacciata, o peggio, la memoria continua secondo me a costituire un serbatoio imprescindibile per la ricerca poetica. Semmai, con il passare degli anni e con il crescere della minaccia, credo di aver imparato a considerare, accanto alla memoria storica, altri nastri memoriali, altre dimensioni temporali, che non negano affatto ma allargano la mia coscienza storica: esiste un tempo vertiginoso al di là della storia, quello della preistoria, quello della vita sulla terra, quello della geologia. Una simile vastità non attenua, ma semmai intensifica, la mia memoria privata e la mia nozione di Storia; se da un singolo ricordo o da un preciso oggetto mi sembra in certi momenti di poter risalire a un territorio sconfinato, a una vertigine di profondità. Vogliamo citare ancora una volta Vittorio Sereni? Prendiamo allora i versi conclusivi di Un posto di vacanza:

 

Un sasso, ci spiegano
non è così semplice come pare.
Tanto meno un fiore.
L’uno dirama in sé una cattedrale.
L’altro un paradiso in terra.
Svetta su entrambi un Himalaya
di vite in movimento.
                         Ne fu colto
il disegno profondo
nel punto dove si fa più palese
– non una storia mia o di altri
non un amore nemmeno una poesia
ma un progetto
sempre in divenire sempre
“in fieri” di cui essere parte
per una volta senza umiltà né orgoglio
sapendo di non sapere.

 

Il disegno profondo: questo prova ad inseguire la poesia, e per farlo non credo possa rinunciare alla memoria che la parola può e deve innescare.