In limine attractionis. Spazi e tempi della poesia

 

Un dialogo tra Gianluca D’Andrea e Fabio Pusterla

 

Gianluca D’Andrea: Caro Fabio, sono veramente felice di averti come interlocutore in questo dialogo perché, come sai, abbiamo nel tempo riconosciuto dei nodi tematici nei nostri lavori che, pur con le dovute differenze stilistiche, ci accomunano e ci seguono da ormai più di un decennio. Certo, come dice Karl Schlögel, «non si tratta quasi mai di proseguire qualcosa, bensì di dimostrare qualcosa di completamente nuovo […]. La vita è sempre anche una “vita oltre”» (K. Schlögel, Leggere il tempo nello spazio, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 185), eppure nel susseguirsi dei giorni intravedo una continuità quasi “pedagogica” nelle nostre rispettive ricerche che sento quasi il dovere di affrontare, incamminandomi con te nella foresta delle parole per provare a districarne qualche groviglio. Ancora Schlögel: «quasi tutto ha un tratto pedagogico, c’è sempre qualcuno che istruisce qualcun altro» (Ibid.) ma è anche vero che a un certo punto il confine di demarcazione tra chi insegna e chi impara si assottiglia fino a scomparire nell’incontro effettivo. Mi piace vedere questo dialogo, allora, come una conferma del nostro incontro.

Partirei da una serie del tuo ultimo libro di poesie, Tremalume (Marcos y Marcos, Milano 2022), che hai chiamato Lugangeles. In maniera forse scherzosa ma non troppo, dal momento che in nota ci tieni a precisare che il nomignolo dopo un periodo di “disarmo” è stato resuscitato per motivi di propaganda politica dalla destra populista ticinese, la formulazione di questa parola-macedonia toponomastica a mio avviso chiarisce uno degli aspetti fondanti della tua scrittura: il percorso di “volgarizzazione” linguistica che accompagna e riflette il degrado dei luoghi, in senso lato del paesaggio (senza con questo voler insistere sulla distinzione tra paesaggio naturale e urbano, ormai inconsistente). Su questa vicenda della volgarizzazione dell’italiano in senso nocivo e non certo collegabile alla missione volontaristica dei poeti delle nostre origini così impegnati a nobilitare proprio il volgare del popolo, mi pare si giochi molto della nostra convergenza linguistica. Penso agisca non solo il disagio ma proprio una tensione rabbiosa nei confronti di questa discesa agli inferi della lingua italiana nella supponenza superficiale e artificiale dell’attuale uso comune. In me, è declinata con ogni probabilità (ma mi dirai meglio tu) nell’urgenza del recupero proprio di quella nobiltà perduta della tradizione e che si esplica in una sperimentazione che, a volte, si arrischia in virtuosismi estremi ma legati comunque al passato letterario. In te, sembra che quella stessa esigenza di leggere nel passato una maggiore giustizia linguistica sia declinata nel contatto umile sia con i luoghi che con le persone. In quanto appena detto, trovo uno spostamento nelle prassi di relazione, dovute in primo luogo al mutamento temporale in cui entrambi ci troviamo a vivere, nonostante la distanza anagrafica di quasi vent’anni.

 

Fabio Pusterla: Caro Gianluca, anch’io sono contento di questa possibilità di dialogo; per le tue stesse ragioni, naturalmente; e anche perché il dialogo fra di noi c’è sempre stato, ma forse più implicito che esplicito, più legato alla reciproca lettura. Condivido quello che hai scritto, e potrei rigettarti semplicemente la palla dicendo che anche nei tuoi libri avverto spesso questa volontà di mescidare, quasi potremmo dire di “sporcare”, il linguaggio per fare i conti con l’ibridazione e con la bruttura del mondo: che non è solo “brutto”, lo sappiamo bene, ma che è attraversato da una forza terribile e negativa che sembra spingerlo verso l’autodistruzione. E luoghi e paesaggi sono la facile cartina di tornasole di questo fenomeno. Semmai potrei suggerire l’idea che in te, più del volgarizzamento, come l’hai definito, del linguaggio, giochi la volontà di reimpastarlo con ingredienti (lessicali, ritmici, sintattici) che provengono dai più svariati serbatoi, alti e bassi, vicini e lontani, orali e letterari. Inoltre, sin dalle tue prime prove, e poi giungendo a quelle più recenti, poetiche o critiche, mi sembra di sentire molto forte una coscienza intellettuale marcata; non so se potrei chiamarlo “progetto”, parola che per la verità non amo moltissimo se applicata alla poesia, ma comunque una direzione di marcia caparbiamente e lucidamente voluta, nella direzione appunto che suggerivo poco fa. E può darsi che, a tua volta, tu veda qualcosa del genere in me. Ma a questo proposito, mi viene in mente un aneddoto antico, che forse avrò già raccontato da qualche parte. Ero molto giovane, forse avevo pubblicato soltanto il mio primo libro, Concessione all’inverno, ed ero stato invitato a una lettura pubblica insieme a Alberto Nessi, un poeta che era allora già affermato e molto noto nella Svizzera italiana. A un certo punto salta su uno dal pubblico, e fa con tono polemico una domanda a Nessi: gli chiede perché, vivendo in un paese così bello, lui scriva cose così brutte. Il solito tipo balzano, ho pensato; ma con mia grande sorpresa Nessi gli ha risposto a sua volta molto polemicamente, dicendo: “scrivo queste cose perché sono socialista, va bene?”. Io non ero stato interrogato dal tizio, che ho poi saputo essere un medico, esponente della destra più estrema; ma mi sono sentito in dovere di dirgli che anch’io ero più o meno socialista, ma che le cose brutte mi venivano fuori da sole. Lui mi ha guardato con commiserazione, e mi ha detto che se avessi letto un po’ di Jung forse avrei capito. Per la verità un po’ di Jung l’avevo già letto, e anche un po’ di storia del ‘900; quanto bastava per intuire che quel tale mi stava implicitamente mettendo nel calderone dell’arte degenerata. Ma, ragioni o irragioni politiche a parte, una cosa era vera, e lo resta anche oggi: non sono, in prima istanza, ragioni teoriche, poetiche o politiche, a spingermi sulla pista che batto. La “volgarizzazione” di cui parli, il mio percorrere soprattutto zone di contatto o luoghi devastati, non è frutto di una scelta razionale, ma di un richiamo forse inconscio. E anche se, come tutti, amo camminare nei boschi, in campagna o quando posso in alta montagna, in territori che a prima vista (solo a prima vista, ahimè) possono sembrare “naturali” e persino incontaminati, io mi sento davvero a casa in quegli altri luoghi, travolti dalla storia umana: periferie, cantieri, campi divenuti discariche, terreni incolti, margini. Dopo, solo dopo, posso ragionarci su, e capire che forse è proprio in questi luoghi che ci è dato capire meglio il nostro tempo e il nostro spazio sociali e individuali. Quindi, magari sbagliando nel proiettare su di te qualcosa che riguarda soltanto la mia esperienza, mi verrebbe da chiederti: cosa c’è, per te, sotto la lucidità progettuale e la riflessione poetica?

 

Gianluca D’Andrea: Caro Fabio, penso sotto non ci sia nulla o forse solo il buco nero dell’identità. Provo a spiegare spinto dalla tua suggestione (provocazione?).

Nel precedente intervento a colpirmi è stata la tua capacità di collegare l’esperienza, anche sotto forma di aneddoto, alle questioni letterarie. A me questo non succede mai, ho sempre sentito una forte difficoltà a leggere i dati del reale con l’aderenza giusta, al contrario sento una forza opposta, centrifuga direi, se per centro intendiamo il contesto, che mi dirige verso un’altra necessità. La chiamo originarietà, non nel senso di originale si intende, quanto piuttosto di sorgivo, e intimo. Penso che la mia visione della poesia riguardi questo sentire che con ogni probabilità confondo con un’identità da scavare e scoprire oltre la superficie. Credo, per allargare il quadro, che il Novecento in me agisca solo come eco, e le attitudini politiche che emergono da quanto dici, sono per me ombre, residui onirici dei sensi di colpa dei padri. Sono cresciuto tra gli Ottanta e i Novanta, in pieno riflusso individualistico dopo la stagione dell’attivismo con le derive tragiche che tutti conosciamo, e per uscire dalla percezione “ombelicale” del mondo, l’unica lotta che ho dovuto affrontare è stata paradossalmente con me stesso e con tutti i miei riflessi (schermi di ogni tipo). Mi dirai che questo è un atteggiamento romantico, con tutto il polverone che il termine può suscitare, ma incomincio ad arrendermi a questa possibilità. Un suggerimento me lo ha dato la lettura di Sul vuoto dell’amico fraterno Gabriel Del Sarto e che si apre con un esergo significativo in questa direzione da Ralph Waldo Emerson: “A rigore, non esiste la storia. Solo la biografia”. Ecco, il mio senso della storia, che emerge evidente già all’altezza di Transito all’ombra e che si approfondisce nelle riflessioni e nei testi di Nella spirale, è tutto nella devastazione che gli eventi hanno causato e nel rifiuto, quasi una fuga, del bambino e poi dell’adolescente che cresceva in quella temperie. Non so se si tratti di un problema generazionale o totalmente personale (il confine da ciò che ti dicevo non è facilmente tracciabile), ma per me la questione esistenziale che inevitabilmente si riflette nel mio modo di leggere e scrivere la poesia, sta nell’incapacità di fidarsi e affidarsi a voci altre, e proprio perché l’io non è più neanche un altro (mi pare tu lo dica proprio in Tremalume). A voler semplificare, l’agonismo o il “nervosismo” che si rintracciano, lo hai fatto anche tu con ottime ragioni, nella mia scrittura deriva dalla tensione per ristabilire un contatto che, però, sento irrealizzabile. Forse è questa la forzatura “progettuale” che avverti, ancora una volta, come nell’Itinerarium mentis in Deum di bonaventuriana memoria, è la commistione che approfondisce la mia vita gradualmente pur ruotando attorno a quel “vuoto” relazionale che allo stesso tempo cerca di essere riempito anche se siamo fuori tempo massimo. Come vedi, in questo cammino paradossale è sottesa una meta che lo orienta e anche la resa alla sua impraticabilità. Ecco perché per me la poesia è sempre questione di soglie più che di confluenze ma, nonostante materialmente di incontri significativi ne siano avvenuti e il nostro dialogo è qui a testimoniarlo, il mio resta un cammino solitario, parafrasando il succitato titolo di San Bonaventura un itinerario mentis ad cordem.

Vorrei concludere sui luoghi per te così domestici: le tue periferie, i margini dell’abbandono, quasi l’anticipazione di quel “terzo paesaggio” individuato e ritrasformato in vettore della conservazione biologica da Gilles Clément nel suo Manifesto, come tutti quelli delle mie esperienze, per me sono spazi di un unico grande archivio, solo memoria insomma, senza privilegi rispetto ad altri ambienti ma sotto una luce abbastanza desolante, à la Eliot per intenderci: «In this decayed hole among the mountains / In the faint moonlight, the grass is singing / Over the tumbled graves, about the chapel / There is the empty chapel, only the wind’s home».

 

Fabio Pusterla: quello che dici mi rimanda subito al tuo libro più recente, Nuovo inizio, il cui punto di partenza mi sembra appunto una situazione antropologica simile a quella che descrivi. Intanto, per la distanza dalla condizione umana che caratterizzava il ‘900 e che, nel tuo modo di sentire, era propria delle generazioni precedenti. Due citazioni, tra la molte che potrei fare, la prima tratta dalla seconda parte dell’opera (che si divide appunto in due parti, ciascuna di 40 capitoli, se si può dire così, ora in prosa, ora in versi, ora mescolando i due generi):

In primo luogo, i racconti dei genitori, il loro Sessantotto filtrato dai media, le loro mitologie immaginate, le loro rivoluzioni teoriche. La parola rivoluzione che divenne un concetto immaginifico, la fuoriuscita illusoria dal sistema nel linguaggio chiuso della scrittura. Era la pace intollerabile della distanza e il mondo, un contenitore costantemente riscrivibile nella sua urgenza di consumo, già dentro la sua autoconsumazione, nella forma spettacolare della catastrofe.

La seconda citazione è più breve e lapidaria; la traggo dal capitolo XXXII della prima parte, dove richiami il nome di Bertold Brecht: «nome scaduto nel tempo della fine».

Tempo della fine e fine del tempo mi rinviano subito all’esperienza tarda di Giovanni Giudici (e alle sue agende degli ultimi anni, recentemente studiate assai bene dal giovane Riccardo Corcione: già in quelle agende si potrebbe forse trovare, in forme diversissime, qualcosa che riguarda il tuo tentativo). Dunque, il tuo libro viene «dopo», dopo un mondo scomparso, e un modo umano di stare dentro quel mondo; non per nulla la sua prima parte si intitola Lo spettacolo della fine; in cui il protagonista vive un disorientamento radicale e un senso di sostanziale estraneità:

Nell’organizzare i ricordi ho sempre avvertito un disagio. È improbabile ricostruire in maniera lineare le vicende perché devo provare a guardare dentro un luogo che non offre orientamento: la condizione di spettatore e interprete è già introiettata e si riproduce all’esterno.

È a partire da questa condizione, vissuta dentro una bolla o capsula di realtà virtuale, che si andrà lentamente, senza poter tracciare un cammino preciso o un progetto ordinato ma affidandosi piuttosto alle connessioni imprevedibili (l’incedere «rizomatico” di cui parla nella post-fazione Antonio Devicienti; e anche il «dispositivo ipertestuale» a cui alludi tu stesso nella nota finale), verso un «nuovo inizio». Ancora due citazioni, una dalla prima parte (capitolo XXVI):

Unico come tensione sempre irrisolta verso una totalità assente, uno sguardo sull’incompiuto, sull’apparato cunicolare che può ammettere una fuoriuscita ma non ne considera la necessità.
Il nostro compito è l’osservazione dei fatti accaduti, setacciare nel mega-archivio, per selezionare barlumi di un nuovo racconto, nel solco di mezzo, nella solitudine manierata che scandisce la visione del tempo.

La seconda, invece, in chiusura del III capitolo della seconda parte:

dopo la distanza siderale della capsula, la vicinanza relazionale.

Credo di capire molto bene il percorso; sono meno certo di cogliere il senso profondo del «nuovo inizio».

 

Gianluca D’Andrea: non conosco così a fondo l’opera di Giudici da poter creare dei parallelismi tra la sua ricerca tarda e la mia attuale, so, però, che l’origine del disagio relazionale di cui si discuteva nasce durante la mia adolescenza e, cioè, nel periodo di composizione delle agende cui ti riferisci (1989-2002), se poi aggiungiamo libri per me importanti come L’illusione della fine di Baudrillard (1992) o comunque indicativi di un momento culturale, vedi La fine della storia e l’ultimo uomo di Fukuyama (sempre 1992), forse diventa più evidente il movimento di tutto il libro Nuovo inizio. Anche la seconda parte, quella omonima, è un gioco al disincanto che, infatti, si chiude (?) con un colpo di scena che rimette in circolo le premesse della prima sezione. Il “nuovo inizio”, allora, è la “non fine”, cioè la perdita di una prospettiva lineare del tempo (e di progresso, probabilmente) in direzione di un continuo riciclaggio, non solo di prodotti, ma anche di concetti e, con risvolti ansiogeni, di valori. In questa dimensione, l’uomo della capsula è immerso nel costante ripescaggio dalla massa di spazzatura mediatica che è la rete e, a mio avviso, così compreso nella sua solitudine da sognare, e non può fare altro, barlumi di relazione (come quando nel cap. XXXVII della prima parte gli sembra di intravedere un’altra “capsula”) che poi sembrano realizzarsi nella seconda parte.

Sulla “non fine” della crisi relazionale che il Novecento ha spalancato, almeno a partire dal secondo conflitto e dall’utilizzo degli ordigni nucleari che lo suggellarono, è incentrata tutta la mia poetica fino a oggi, e infatti ci saranno altre due tappe che proveranno a approfondire questa mia convinzione, forse un’ossessione: la raccolta del mio lavoro critico dal 2004 al 2021, col titolo La foresta in cammino che, mi sono accorto rivisitandone le tappe per la pubblicazione (l’editore sarà ancora Industria&Letteratura come era accaduto per Nella spirale), ha come fondamento proprio il disorientamento identitario accompagnato all’evidenza di riscoprirsi trasformato nei libri degli altri; il prossimo libro di poesie che si intitola Secolo.

 

Fabio Pusterla: credo di riuscire a comprendere il tuo discorso e quella che definisci la tua poetica. E ho letto il volume di Baudrillard che per te è stato così importante. Anche in questo caso, mi sembra di capire bene; e tuttavia sento di appartenere a una dimensione un po’ diversa, forse dovrei dire più empirica e meno teorica; e a qualcuno parrà semplicemente più ingenua. Ma insomma, se scelgo una citazione da quel libro, per esempio la seguente: «Queste società che non si aspettano più nulla da un avvento futuro e hanno sempre meno fiducia nella storia, che si trincerano dietro le loro tecnologie di prospezione e nelle reti alveolate della comunicazione, in cui il tempo viene infine annientato dalla circolazione pure – queste generazioni non si risveglieranno forse mai, ma non lo sanno»: se leggo queste parole, come reagisco? Da un lato con una tentazione polemica: a quali “società” si rivolgono simili considerazioni? Perché a me sembra di conoscere, o di poter immaginare, delle società umane che non accettano supinamente di essere definite da un simile quadro; e non sto pensando solo a società almeno provvisoriamente esterne o marginali rispetto alla catastrofe occidentale, ma a microsocietà interne al sistema. In secondo luogo, reagisco empiricamente: il quadro disegnato da Baudrillard mi ricorda una scritta seicentesca su cui ho già avuto modo di scrivere; si trova sul muro di una villa dalle mie parti, e mi aveva molto colpito, quasi stregato, da ragazzo; poi ho scoperto che anche Vittorio Sereni se l’era annotata, dedicandole una breve prosetta. La scritta dice: «Il passato mi castiga, l’avvenire non mi piace, il futuro mi spaventa». Un bel condensato di nichilismo e di azzeramento del tempo all’insegna del vuoto e della disperazione. Curioso come un motto di 400 anni fa possa somigliare alla situazione attuale. Però conosco un’altra scritta, questa volta incisa su un architrave a Pordenone: «Anchora spero di meglio»; e a me sembra ogni tanto che la mia esperienza sia stata, e continui a essere, un bilico tra queste due antitetiche espressioni. La prima è la condizione o la tentazione di partenza, una forma di resa quasi incondizionata; la seconda l’orizzonte verso cui mi sforzo di camminare, attraverso la poesia.

Tornando però alla concretezza, vorrei ora chiederti di parlare della tua fittissima attività critica, che verrà prossimamente riunita in un ampio volume, La foresta in cammino: quasi vent’anni di interventi, recensioni, riflessioni. Quanto della tua poetica, e delle osservazioni che abbiamo sviluppato in precedenza, sono entrate, esplicitamente o implicitamente, in questa attività critica? O, in termini anche più generali: come pensi di interpretare l’approccio critico ai testi e agli autori di cui scegli di occuparti? E come e quanto il lavoro sui libri degli altri influenza poi la tua scrittura?

 

Gianluca D’Andrea: Chiaramente il quadro offerto da Baudrillard nel saggio citato non è del tutto sottoscrivibile. Anch’io, come te, ho alcuni dubbi sul nichilismo basilare, quasi “fondamentalista” au contraire, delle sue posizioni e, ancora come te cerco di mantenere un minimo di fiducia, proprio verso le microsocietà interne al sistema di cui parli (qui si aprirebbe una lunga parentesi sulle nostre rispettive esperienze scolastiche che però ci allontanerebbe troppo dal nucleo di partenza di questo dialogo). Sta di fatto che l’atmosfera di quel tipo di riflessioni mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e ha trovato espressione compiuta, credo, in Nuovo inizio.

Come te, inoltre, mi sforzo di camminare in direzione di una fuoriuscita dall’angoscia dell’avvenire, capendo cosa intendi con quel “bilico”, la tensione del saltimbanco, la chiamerei, o dell’equilibrista obbligato sul filo del tempo dalla sua stessa identità. In limine attractionis, quindi, cioè sul confine, sulla doppia valenza di una soglia che può, e forse deve, aprire all’incontro relazionale si muove anche il lavoro critico raccolto in La foresta in cammino. In prefazione lo dico:

È proprio la suggestione di un segno/segnale da cogliere e reindirizzare ad aver mosso le scelte dell’autore in merito ai saggi, le recensioni, insomma ai testi che si troveranno sfogliando il libro, e che provengono da scoperte casuali o intercettazioni provvisorie, certo legate al cammino di chi si è visto raggiungere dalle parole degli altri e che, per questo, manifestano tutta l’aleatorietà che contraddistingue le nostre esperienze. Eppure, in questa stessa imprevedibilità è avvertibile il senso di necessità di una relazione (fra chi legge e chi scrive, tra l’individuo e il mondo, tra l’io e l’altro?) che sempre il segno ci dà come improcrastinabile, nella tensione all’incontro che rende ancora plausibile l’esistenza su questo pianeta. Certo, non sarà la poesia a cambiare il mondo eppure l’autore è ancora convinto che l’incontro con la parola dell’altro – e la poesia è con ogni probabilità l’emergenza di questo incontro – possa scuotere, disorientare e riorientare, almeno è quello che è accaduto a lui nei quasi due decenni che circoscrivono la cronologia di questo volume.

È dunque il segno di uno spaesamento, ancora una volta originario, che mi ha spinto a cercare nei testi di altri autori. Sono convinto che l’identità sia un limite senza la capacità di perdersi nella relazione. Ancora in prefazione così mi esprimo, infatti:

l’autore grazie all’affondo nei testi altrui ha provato a distanziarsi da se stesso e a osservarsi […] dalla lontananza di un naufragio più volte replicato. E non sapendo se con gli strumenti giusti, ha provato a salvarsi – è questo l’unico viatico, minaccioso lo riconosce, che offre agli eventuali lettori-navigatori.

Infine, per rispondere al tuo ultimo quesito, ritengo l’approfondimento nella scrittura di altri autori – sia della tradizione, sia contemporanea – essere l’unico criterio per raggiungere la propria voce, un’originalità che trova dimora nello spossessamento. Il linguaggio della poesia è di tutti, si può scegliere di depredarne i tesori o abbandonarli all’oblio, resta il fatto che incrociando le voci “altre” si aprono nuovi cammini e inaspettatamente ci si trova dove non si sarebbe mai immaginato, il che a mio avviso è un valore aggiunto, non una liberazione da sé ma la libertà di essere in umiltà, in potenza, come dice Wallace Stevens in L’angelo necessario:

«l’immaginazione è il potere della mente sulla potenzialità delle cose […] che non genera un valore specifico ma tanti valori quanti ne esistono nella potenzialità delle cose».

 

Fabio Pusterla: due ultime questioni, per avviarci alla conclusione di questo dialogo, mi vengono da un altro tuo libro di prossima pubblicazione, la raccolta poetica intitolata Secolo. Leggendolo, ho pensato più volte alle osservazioni recenti di Italo Testa, condensate nel suo notevole saggio Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale (Interlinea, 2023). Non so se l’hai già letto, ma vorrei comunque chiederti se ti senti in qualche modo rappresentato dalla proposta di Testa, a partire, per fare solo un esempio, da un tuo passo come questo:

Sono all’interno della radura, tra ciuffi d’erba sporadici e sterpi dove spuntano isolate o a grappoli le piccole sfere. Riprendo fiato e il cammino dopo aver sputato schegge di saliva e la mia inerzia.
La terra sembra svanire mentre l’attraverso, la sua consistenza manifesta il passaggio di dei sgretolati e la loro capacità di estinguersi per riapparire sotto altre forme. L’aria s’ispessisce in blocchi grigi sparpagliati tra le pareti cavernose. Un mare aperto tra le crepe fiammeggia fino a ricompattarsi in un amalgama di strade.
L’avvento di altre intelligenze, non umane, si fa spazio nel paesaggio di crepacci e ricordi. La polvere e la sabbia ricoprono porzioni di corpo. Scendo senza un’idea precisa del dopo, fuggo il buio, l’estensione dell’ombra. Così assisto al parto. La porzione luminescente e viscosa della placenta sulla terra, il sudore e gli occhi, i miei e delle bestie, s’incrociano fino a consumare gli sguardi, fissando l’immagine nella retina.

I primi passi vivono nell’estinzione, la scoperta mi blocca fino a farmi indietreggiare, è tutto finito, oltre, è già un ritorno tra ciuffi sparuti di muschio riarso e bulbi acquosi.

La seconda domanda muove invece dalla eccezionale varietà di forme metrico-ritmiche messe in campo in Secolo: si va dalle gabbie tradizionali (l’ottava, la terzina dantesca) presenti soprattutto nel poemetto che occupa la prima parte del volume, alla prosa lirica, al verso libero, e, verso la fine, a un specie di disseminazione del verso sulla pagina, un po’ come nel Coup de dés di Mallarmé. Tu non sei certo nuovo a una simile escursione ritmica; si tratta di una costante volontà sperimentativa, legata a quel nervosismo del linguaggio a cui abbiamo accennato, o c’è dell’altro?

 

Gianluca D’Andrea: Caro Fabio, nel ringraziarti per il dialogo ricco di spunti che abbiamo condiviso, ti dico sì, ho letto il saggio di Testa e ho in effetti trovato molte rispondenze di poetica, ma in generale con l’opera di Italo c’è sempre stato un rapporto privilegiato, sin dalle origini del nostro lavoro. Non so fino a che punto ciò sia dovuto al fatto di appartenere alla stessa generazione, resta comunque la vicinanza, soprattutto se focalizziamo i termini della crisi relazionale tra soggetto e contesto. Italo la chiama crisi d’intelligibilità ma è in pratica quello che provavo a dirti all’inizio del dialogo:

Oggi assistiamo a una sorta di crisi d’intelligibilità, che in diverse diagnosi sembra avere a che fare con la fine di un mondo e delle sue pratiche, di una forma di vita leggibile: fine della modernità, fine della società letteraria, fine della politica nella sua concezione novecentesca… Una situazione per certi versi analoga a quella dei capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno – i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite. Molte diagnosi contemporanee denunciano una crisi di senso analoga, in cui sembrano venuti meno i riferimenti che rendevano intelligibili certi atti: che cosa può contare oggi come atto di parola, poesia civile, poesia politica, se ci mancano i riferimenti a quella prospettiva collettiva d’emancipazione che ci consentiva di afferrarne il senso?

Ecco, finita la prospettiva collettiva, l’individuo è solo con le sue «capacità di futurazione» (ancora Italo nell’introduzione al suo saggio) e, con ogni probabilità, già da Nella spirale da cui il brano che citi è stato estratto e riportato poi in Secolo, a emergere è la speranza che si traduce in una dimensione visionaria che confonde le cronologie. Secolo è, infatti, una specie di favola sospesa nel tempo, che parte dal punctum (diramazione musicale, da canto gregoriano, ma anche visiva come dice Barthes in La Camera chiara) dell’esplosione atomica, attraversa l’infanzia dell’autore e s’infiltra nel presente-futuro a stento percepibile che è il nostro “oggi”. Il “futuro alla deriva” di cui parla Italo visto come invenzione del possibile, come immaginazione utopica che si esprime attraverso una mescolanza di frammenti che fanno il paesaggio e che in Secolo sono anche la tradizione formale (il passato) e il futuro aleatorio dell’ultima sezione a gradini, i Mimetismi che tu avvicini al Coup de dés mallarmeano. Penso di aver risposto al tuo ultimo quesito, perché la dimensione ritmico formale “mescidata” che ha nel tempo caratterizzato il mio lavoro non è dovuta a una volontà di sperimentazione, bensì a una necessità interpretativa del contesto che effettivamente leggo, appunto, come una composizione per frammenti. L’esistenza di una tradizione letteraria traducibile in gabbia formale, si sposa nel nostro presente con la massima libertà espressiva, in un’ibridazione di tempi e luoghi senza confine, semmai nell’assoluto di un deserto che ha in sé i germogli di una nuova produttività, per divenire «la silva  dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti» come dice ancora Italo verso la fine del suo saggio. Secolo, allora, è forse il tentativo di attraversare l’ombra per scorgere semi o, come direbbe il poeta scozzese Robin Robertson con più pregnanza, essere già into the shadows to seed.

 
 
Le foto di D’Andrea e Pusterla sono di Dino Ignani