Atelier d’inverno – Remo Pagnanelli


 

Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, pubblichiamo l’introduzione di Roberto Galaverni alla riedizione di Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli, uscito per AnimaMundi nel 2022, a cura di Franca Mancinelli e Rossana Abis, con una nota di Milo De Angelis. Edito nel 1985, il libro è proposto per la prima volta in volume nell’ultima versione approntata dall’autore nel gennaio ’87.

 
 

Introduzione

 

Si può cominciare dicendo, con una tautologia, che Atelier d’inverno di Remo Pagnanelli è un libro invernale, per poi aggiungere subito che il riferimento all’inverno è un tratto comune a molta poesia scritta in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, specie tra i più giovani. E del resto proprio Remo, che possedeva una mente critica formidabile (la migliore, a mio vedere, della sua generazione), nei suoi tanti interventi sui poeti e sulla poesia era tornato molto spesso – proprio mentre era lì, in medias res – su questa idea: l’inverno, anzi, come diceva lui, la «temperie invernale» come la metafora più appropriata di una situazione storico-esistenziale e psicologica caratterizzata dalla sfiducia nelle possibilità dell’azione e di un cambiamento reale, da un senso d’impossibilità e di stagnazione (o di riflusso), dal ripiegamento sulle ragioni private o interiori, da un sentimento di posterità alla vita e alla storia, e allora dal confronto, operante a ogni livello, col concetto di limite, di confine, di una faglia tanto biografica quanto epocale. «Il tutto ridotto ad un esemplare inverno», come si dice in una di queste poesie. Da questo punto di vista, quello che vale per Pagnanelli può valere anche per molti suoi compagni di strada, non importa quanto vicini o lontani. Arrivati troppo tardi per continuare “per li rami” la tradizione poetica in cui pure sapevano d’affondare le radici, si riconoscevano tuttavia arrivati troppo presto per intraprendere un cammino davvero nuovo e diverso.

In Paesaggio invernale (o quasi), uno scritto uscito postumo nel 1988, Pagnanelli ha definito tutto questo come l’«esperienza del con-fine», che poi è quella «di una poesia non consolatoria, che discorre imperterrita della e sulla fine». Da questo punto di vista si tratterebbe di una situazione comune a tutta la migliore poesia del secondo Novecento inoltrato, dai grandi vecchi, Montale in primis, ai poeti della terza generazione (Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi), a poeti come Zanzotto, Sanguineti o Giudici, per arrivare agli ultimi arrivati, o più precisamente agli arrivati dopo, visto che questo termine – dopo, appunto – è una delle parole- concetto fondamentali della poesia di Remo, in senso sia esistenziale, sia storico-letterario, sia metafisico (s’intitola Dopo, non a caso, il primo libro di poesia che ha pubblicato, nel 1981). Ma – ecco – un conto è portare a termine una lunga storia di scrittura attraverso l’esperienza e il senso della «fine», un altro invece, come più di tutti nel caso di Remo, è cominciare da lì. La differenza ovviamente è enorme, perché in questo secondo caso è come se si dovesse costruire un edificio non avendo più lo spazio, il tempo, le ragioni stesse per farlo.

Allo stesso modo, le immagini d’Atelier d’inverno, come poi quelle del successivo Preparativi per la villeggiatura, uscito postumo nel 1988, sono intessute con un filo poetico-esistenziale che Pagnanelli considerava esaurito e di cui sentiva di tenere in mano soltanto l’ultimissimo capo. Quanto alla loro costituzione intrinseca sono allora immagini costruite in qualche misura a rovescio, o à rebours, come se procedessero o significassero in senso contrario. Sembrerebbero approdi, prese di possesso di territori esterni o interiori, svolgimenti e acquisti di una storia ancora possibile; e invece dicono pressoché invariabilmente dell’esaurimento e dell’inconsistenza di tutte queste possibilità. Di qui la loro natura quasi ingannevole, volutamente equivoca, ma certo poeticamente fecondissima, e direi anche alquanto speciale, se non unica.

L’immagine più peculiare di Pagnanelli costituisce infatti un capolinea, un congedo da una situazione storico-esistenziale riconosciuta come priva di qualsiasi prospettiva o via d’uscita concretamente praticabile. Anche dal punto di vista critico, del resto, quella del congedo era la figura poetica che gli interessava di più. «Si lamentava della mancanza di una qualsiasi uscita / Scorgendone svariate per altri, tutte comode e perseguibili». Quasi ogni sua poesia mette in scena un qualche finale di partita, per ribadire infallibilmente, come per successive dimostrazioni, che la partita non può più essere giocata. Non da parte sua, almeno.

Il fatto è che Pagnanelli si era fatto carico, con una consapevolezza e un radicalismo che forse nessuno tra i suoi coetanei ha avuto, di questa impossibilità storico-generazionale, che ha però agganciato molto strettamente, come se i due aspetti si dessero manforte rispecchiandosi l’uno nell’altro, con le inquietudini, le attese e i baratri della propria situazione interiore. L’eccellenza del suo discorso poetico – la maestria nel modulare toni e semitoni diversi, le invenzioni lessicali e ancor più sintattiche, le tante, spesso formidabili definizioni in cui ha fissato, magari osservandosi come una cavia, il suo rapporto con la vita – nascono esattamente nella consapevolezza di questa impasse. E credo che proprio con Atelier d’inverno un simile crocevia di sollecitazioni esistenziali e letterarie sia approdato a quella che si può considerare – pur tenendo conto che si è trattato di una parabola poetica di pochi e comunque intensissimi anni – la stagione della maturità poetica di Pagnanelli. Oddio, Pagnanelli è un poeta che per la precocità dell’intelligenza e della consapevolezza operativa lascia a bocca aperta. Gli Epigrammi dell’inconsistenza, che scrisse appena superati i vent’anni (sono stati pubblicati nel 1992 da Eugenio De Signoribus), rivelano da parte sua una coscienza della propria collocazione storico- poetica, un controllo dei mezzi espressivi e più generalmente un discernimento poetico davvero stupefacenti. Sembra che fin da subito avesse tutto chiaro, che sapesse già tutto in partenza (è proprio vero, dunque, che è partito dalla fine). Penso anche al mio incontro con lui, allora, perché è stato tutto nel segno dell’ammirazione. Quando all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a leggere le sue poesie e i suoi saggi critici, la mia impressione è stata infatti quella di trovarmi davanti a qualcuno che poteva insegnarmi moltissimo. Un maestro, insomma. Vedevo bene la passione con cui aveva vissuto la poesia, vedevo la sua capacità di comprensione, vedevo quanto fosse andato avanti e a fondo. E dire che questo maestro aveva fatto ogni cosa quand’era un ragazzo o poco più; un ragazzo di tale autocoscienza e maturità intellettuale da risultare insieme, per paradosso, incredibilmente scoperto, fragile persino. Così è anche la sua voce, del resto. Sopravanza infallibilmente il lettore, come se avesse consumato già tutta l’esperienza del mondo, o fatto già tutta quanta la strada, al punto che proprio mentre lo si ascolta ammirati o anche un poco intimoriti, si vorrebbe poi prenderlo per mano, riportarlo un po’ indietro. Comunque sia, è in Atelier d’inverno che la poesia di Pagnanelli mostra per la prima volta il suo volto più originale (pubblicato nel 1985, nella terza sezione comprende buona parte della plaquette Musica da viaggio, uscita l’anno prima). Ed è un volto, questo suo, capace di provocare nel lettore un certo straniamento. Le immagini, le situazioni, le figure, l’intonazione stessa del discorso sulla e della fine, appaiono infatti regolate da un sistema di riferimenti e valori di cui a tutta prima ci sfugge la grammatica. Una grammatica insidiosa, sottilmente ambigua, ma anche rigorosissima. Pensiamo appunto alle immagini. Dove ci troviamo? All’interno o all’esterno? Sono paesaggi interiori o esteriori, è una dimensione psichica o fisica quella che viene configurata in queste poesie? E le acque, davvero onnipresenti, rimandano alla fluidità dell’inconscio o al paesaggio marchigiano (l’«orto adriatico»)? Sogno o veglia, trasognamento o massima lucidità dei «discorsi dell’addormentarsi»? Di fatto, quasi sempre non si può decidere. Da ogni punto di vista questa è davvero una poesia che sta sul limite. Quanto a questo, credo che il suo aspetto più affascinante stia nel tono del discorso poetico; o detto altrimenti nella voce stessa di Pagnanelli, che discorre come se niente fosse, nel suo «stile medio, / da commedia della villeggiatura», delle cose più gravi ed estreme. L’estremismo del quotidiano, l’understatement delle questioni prime e ultime, così si potrebbe definire. E dunque: la saldatura tra la componente tragica e quella ironica (una «tragicomica noncurante, / Trasognata consapevolezza», così la definisce il poeta), tra il domestico e il perturbante, tra ciò che è rasoterra o diminutivo e ciò che è sublime, per cui non si dà una cosa senza il suo rovescio. L’«alone di smorfiasorriso», «un’oltretomba a fumetti»: sono tante le definizioni che dicono di questa coesistenza-limite. La poesia di Pagnanelli sta anzitutto in questo contrasto, in questa tenerezza terrificante, in questo gelido tepore, che poi è quello di chi si rivolge a se stesso con cordialità e complicità, ma insieme con incredibile distacco. «La tua stella si è scompostamente spenta, / sommersa sulle gaggie da muffe sottocorticali, / conficcata in un silenzio liquido»; oppure, quasi facendo di poesia teoria: «(l’unico essere che somigliasse / in qualche modo al numinoso, / si rivelò poi il tu inconsapevole / di un canzoniere minore). / Era il mio dio».

A me sembra davvero che questa sua musica sia una meraviglia. Atelier d’inverno resta uno dei libri di poesia più rappresentativi di fine secolo, tanto più tra quelli scritti dalle nuove generazioni. Questo perché nonostante le operazioni poetiche di Pagnanelli siano conficcate nella sua esistenza personale, la sua riflessione tende sempre ad assumere il valore di una testimonianza storico- culturale, e ancor più antropologica, più vasta. La distanza stessa con cui ha guardato alla propria vicissitudine esistenziale, o alla propria dimensione psichica, dice di questa sua continua tensione verso l’oggettivazione per via di poesia. L’inverno, come dicono i suoi versi, non è cosa solo sua, né appartiene soltanto a quel tempo («Il generale Inverno ti prepara guadi e foreste / impenetrabili»). E anche i riferimenti psicoanalitici, quel «materiale onirico» così frequente nei suoi versi e nelle sue poesie in prosa, vengono assunti come un argomento, cioè appunto come un tema psicoanalitico. Forse come nessuno Pagnanelli è stato un poeta della fine – la fine del secolo, appunto, e poi, dal punto di vista poetico, la fine degli stili (ne ragiona in una di queste poesie), e poi, ancora, la fine come limite tra ciò che è la vita e ciò che la vita non è. E proprio questo senso di una responsabilità insieme privata e pubblica, in senso lato civile, assicura a tutt’oggi il senso e la vitalità della sua poesia, ben oltre qualsiasi fine.

Roberto Galaverni

 
 
 
 
riemergere fra gli dei
prevede l’idea che questi stiano in alto.
È meglio allora che l’analista padre
si adatti all’ipotesi di lasciarmi abbandonato
sul greto del fiume,
sempre che il suo onorario
non pretenda un sovrapprezzo
per la trasformazione
da umano a farfalla.
 
(Comunque sia, la bocca si allarga
in prossimità dell’acqua
e gli occhi bevono il verde del parco)
 
 
 
 
 
 
nel dire di una trasformazione di materie, liquefacendosi,
scostante nello spostamento, nello strappo…
un amore più grande di quello tra me e voi,

te e me nella specie, acqua su acqua

 
 
 
 
 
 
Cadenza d’inganno
 
Un deserto di conifere scure distese. Lì, un bianco amore.
Dune vuote in faccia al mare (eppure è estate), che suonano dolcezza.
Fanno pensare a chiglie capovolte di fossili.
Donne vuote. Otri nell’orto adriatico.
O non è invece (della dolcezza), la dedizione,
il seguire passo passo la cuna dell’estate.
La seduzione, la dedizione insigne e azzurra
di sagome di cartilagine tra le acque spesse –
ne scelsi una, la tua bambina.
Mi prendevi la mano, pendevi dalle mie labbra
(io dispiegavo carte da gioco).
Dunque, non era infanticidio, ma adulticidio.
(Freud e gli atti di violenza sessuale
subíti dai fanciulli come matrice delle nevrosi,
poi abbandonati per l’Edipo. Invece ripresi da Fliess,
però malato, non più in grado).
L’estate fugge nelle provincie ctonie.
Il verde non è quello di una volta.
Tace il mare (sì, che ci accontenteremmo
di false fughe, falsi fondali, gioventù da dilapidare)
 
 
 
 
 
 
Biglietto da viaggio
 
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande, garantirà per me
questo splendore. Parti pure
e non interrogarti (questione
di attimi e scorderai)
 
 
***
 
 
mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui,
ma non necessariamente…
 
 
 
 
Pseudo cabaletta
 
spoliazione di toni freddi in altrettanti ossidati,

su bianchi fondali inessenziali musica di grandine
docile e torbida – eppure ci siamo annoiati spesso
in faccia al mare, talvolta reciprocamente malmenati
e odiati, per non dire dell’orrore dei rispettivi
umori odori.
 
Per puro intrattenimento nominavi divinità,
pietre opache, selcidiane, in un tramestio

di scialbi vetri, sotto un diluvio
di foglie brunite, ali palpebrate, lacrime a fiotti.
 
 
 
 
 
 
Et in Arcadia ego (la primavera)
 
ti si addice l’umido finale della corsa,
e dopo, nel tepidario, uno stile medio,
da commedia della villeggiatura,
il rinfresco di una pioggia in fuga,
e invece dell’albero frondoso,
la verità del ramo scheletrico,
al posto della rosa una pietra,
sull’ulivo d’argento petali decrepiti…
(pensano sé stesse, non te, le foreste in crescita
sullo sfondo del mare, noncuranti che la tensione
del germoglio)
sul rovescio dell’autunno si stagliano
fiori d’una falsa neve, caduta, che non scende,
che si espande sulle nuvole d’erbe,
(ne tremano le teste di foglie brune,
vedute remare nell’acqua morta),
dove s’ergono due vedovanze cobaltiche,
menhir in gramaglie dell’estate che tarda,
ma che, oh, già colma di tagli febbrili,
gioiosamente mena una cortina immaginaria
di profumi e suoni fendenti…
 
 
 
 
 
 
un dio si getta continuamente su noi.
Per questo piangi e non dormi la notte,

vedi i campi, da ordinati vetri botanici, sfigurarsi,
il grano cambiato in scuro tabacco,
sabbie alzate a dossi per coprire l’azzurro tenerissimo
 
– Grande Giardiniere, capo (chiedo insistentemente),
data l’irrecuperabilità di questo, sarà possibile mutarlo
in futuro d’acque e piante stabili… –