Tutti poeti, nessun poeta

Giorni fa, un mio alunno diciottenne mi ha detto che se il Sassuolo avesse battuto il Cagliari lui avrebbe vinto 2900 euro. Gli ho risposto che ho simpatia per il Cagliari, ma che per l’occasione avrei tifato per il Sassuolo.
Qualche settimana prima, ero andato a Villacidro, provincia di Cagliari, giustappunto, dove si era celebrato il premio intitolato a Giuseppe Dessì. Tre narratori e tre poeti erano stati selezionati come finalisti, e per questo avrebbero ricevuto ognuno un assegno di 1500 euro (il vincitore ne avrebbe incassati 5000). Per quanto mi riguarda, non avevo avuto alcuna intenzione di concorrere, ma la casa editrice Elliot aveva inviato le copie ugualmente, ed eccomi a Villacidro, con altri due noti poeti più anziani di me, avendo io soltanto 58 anni. Ho vinto 1500 euro, con un libro intitolato Come sempre. Scelta di poesie 1992-2022.
Sempre assai recentemente, sono andato a conoscere il poeta e saggista statunitense Dana Gioia, che era a Roma. Dopo la sua conferenza, durante il breve tragitto verso il ristorante per la cena, ho chiacchierato con un’addetta dell’istituto di cultura americano. Mi ha chiesto: «Are you a full-time poet?». Un poeta a tempo pieno.

È più forte di me: leggendo il tema di questo dibattito, Valore poetico, mi viene istintivo declinarlo dal punto di vista economico, anzi, finanziario. La società capitalistica ha un modo meravigliosamente brutale per dirti chi sei. Il primo dovere etico-sociale di un poeta è capire che è povero e perché lo è.

Nell’intervento di Gianmario Villalta (QUI) c’è una cronologia che mi convince: dal 1943 al 1975 e dal 1975 in poi. Apporterei una correzione: 1943-1978 e 1978-oggi. Nel 1978 viene ammazzato il politico dei compromessi, Aldo Moro, con due intenti, uno di sinistra e uno di destra: scatenare una guerra proletaria più ampia di quella dichiarata dalle “élites” terroristiche, e di conseguenza lacerare il tessuto politico italiano, eliminare i Comunisti dall’area di governo e da una fatale prospettiva socialdemocratica, innescare una “normalizzazione” della cultura alternativa. Il primo intento, per fortuna, non è stato raggiunto, il secondo, per sfortuna, sì.
In sintesi, potrei dire: dal 1943 al 1978, le élites culturali italiane – che fossero liberaldemocratiche come quelle di Pannunzio e Chiaromonte o socialcomuniste come quelle di quasi tutti gli altri intellettuali – hanno creduto di essere nella Storia, di poter creare o aggiustare qualcosa. Dopo il 1978, hanno smesso di crederci e si sono accorte della realtà: che l’Italia è il rilevante satellite di un sistema capitalistico a guida americana, e che dunque è fuori della Storia, deve solo lavorare, produrre, divertirsi, evadere, con l’unico orizzonte della modernizzazione. La modernizzazione implica l’apertura globale dei mercati, la rivalutazione culturale delle scienze, il ricorso massiccio alla tecnica, l’eliminazione delle nicchie di resistenza (dialetti, tradizioni) e quando occorre la risposta militare ai risorgenti medioevi, come il nazionalismo slavo (Milosevic, Putin) e l’islamismo.

Nel loro piccolo, i poeti si sono adeguati. Prima del 1978 hanno militato, fondato scuole e riviste. Il tutto, però, su un fondo di rinuncia e di disinganno, il celebre “non chiederci la parola” di Montale, un post-dannunziano di straordinaria intelligenza e di posizionamento ambiguo. Luzi ha capeggiato i drappelli cattolici, Fortini quelli che attendevano l’Angelus novus del proletariato, mentre Caproni e Sereni hanno scavato decisamente nella “vacanza”. I poeti più astuti e di minor respiro, come quelli del Gruppo ’63, hanno sùbito occupato i posti assegnati dalla modernizzazione, fingendo di farlo polemicamente. Come il Futurismo aveva avuto il suo poeta vero, Palazzeschi, anche i neoavanguardisti hanno avuto Pagliarani. Pasolini ha attraversato tutto l’arco del processo in atto: si è voluto poeta fino alla fine, ma ha smesso di scrivere in versi e ha fatto cinema, gettando su tutti noi la croce della propria filologica morte.

Dal 1978 è cominciata l’era della nostra consapevole minorità, ed esclusione, e futilità. Negli ultimi 45 anni, il Regno Unito ha vinto 7 premi Nobel per la letteratura, la Francia 5, gli USA 4, la Polonia 3, la Germania, l’Austria e il Sudafrica 2, l’Italia solo uno. A Stoccolma ci hanno premiato per la saldezza della tradizione classica (Carducci e il “traduttore” Quasimodo), per la permanenza di quella etnico-popolare (Deledda e Fo), oppure, in un paio di casi, per una miracolosa notorietà internazionale (Pirandello e Montale). La modernizzazione ha spazzato via i due terzi delle nostre chances, producendo anche rincorse, scimmiottature, sensi di colpa. Gli Italiani hanno moltiplicato le traduzioni, hanno diversificato stili e aperture, inventando quella “parola plurale” che sembra accogliere tutti, in una post-critica apocalitticamente rasserenante. Intanto le sparute cittadelle del “buon gusto” aristocratico-borghese venivano non tanto espugnate, quanto lasciate a loro stesse perché ininfluenti. L’editoria e l’università si aprivano alle masse nutrite di televisione e poi di web. Proprio per questo, l’accademia si è voluta “scientifica” anch’essa, cercando un’oggettività non più classicistica, ma al di sopra di ogni spontaneismo. La poesia, che implica selezione di tempi e modi, concentrazione distratta, ampie letture (di sé), capacità autocritica, è stata travolta.

Naturalmente, la poesia è ancora tra noi. Ma lo è in una maniera ampiamente distorta. Tutti noi lo sappiamo, ma pochissimi l’hanno detto e scritto. Personalmente, fin da giovane ho scelto di camminare accanto a quei pochissimi, Giorgio Manacorda, Alfonso Berardinelli, Edoardo Zuccato, Paolo Maccari, Matteo Marchesini: tutte persone ampiamente difettose ma anche geniali, che non nascondono i propri difetti e il proprio genio. Tutte persone attaccabili, marginalizzabili e sincere.
Negli ultimi decenni, la poesia italiana, proprio perché italiana, anche e soprattutto nel tempo della globalizzazione, è stata gestita in modo feudale da pochi “addetti ai lavori”, che hanno agito come mandatari di una dismissione quasi totale. La poesia è stata attentamente guidata verso l’irrilevanza culturale, poi verso quella specificamente letteraria. I festival hanno cercato il contatto col pubblico, in alcuni casi incentivando la lettura, in altri sostituendola. Ciò che è stato abbattuto quasi del tutto è stata la verifica critica. Tranne che nell’Annuario fondato da Manacorda, che tutti a suo tempo hanno letto e che nessuno cita, la poesia non è stata recensita, discussa, incalzata, stroncata. Nessuno più le ha chiesto qualcosa di decisivo: è stata lasciata cadere senza scossoni, lievemente, in modo indolore. Così, il postmoderno ha potuto fare il suo corso, il sonno della ragione ha creato i soliti mostri, ovvero le cordate, le clientele, il piccolo mandarinato dei centri di potere, le esclusioni a vita, le rendite di posizione, il mettersi in coda per uscire nella tale collana. L’Accademia ha preso supinamente per buone le risultanze dei migliori posizionamenti editoriali.

Tempo fa qualcuno mi ha definito come appartenente a una “disgraziatissima generazione”, quella dei nati negli anni ’60. Posso replicare questo: non è colpa né merito mio essere nato quando sono nato. Della mia generazione non m’importa nulla. Ci sono persone che leggo con piacere e convinzione, che ascolto e incontro volentieri: sono italiane e non italiane, hanno fra i 30 e i 90 anni. In dodici mesi, leggo quattro o cinque libri di autori italiani viventi. Mi riservo il diritto di fare scoperte e di essere sorpreso (l’ultima volta in ordine di tempo è stata quella di Maddalena Lotter, con l’ottimo Atlante di chi non parla, Aragno). Ma so che – con poche eccezioni – i poeti giovani di oggi sono degli abatini o dei carrieristi che si accodano a qualche debole maestro, credendosi già eredi di, o autori di. In realtà puntano diritti a pubblicare entro i quarant’anni presso Einaudi o Mondadori. La squallida ubiquità dell’autopropaganda web fa il resto. Nel mentre, escono dei libri inqualificabili che assomigliano a delle antologie epocali, e sono dei passepartout. Qualche settimana fa mi è stata offerta la possibilità di recensire un’antologia della poesia universale. Ho risposto di non essere competente, soprattutto nei riguardi degli autori di Sirio e Alpha Centauri.

Il valore poetico è molto basso nel 95% dei casi. Chi non se ne accorge è troppo generoso, troppo indulgente o troppo amante del quieto vivere. Da qualche tempo vanno di moda le donne-poeta, senza nessun titolo, perché le donne scrivono qualche bel libro e moltissimi brutti libri, come gli uomini. La poesia italiana contemporanea, qualunque sia il significato di questo aggettivo, è una piccola arena. Ultimamente, alcuni autori di versi hanno dichiarato che la prossima sarà la loro ultima opera, che la poesia non fa più per loro. Troppa fatica, e troppa facilità al tempo stesso. Tutti poeti, nessun poeta. Meglio il treno affollatissimo della narrativa, che ha ancora un po’ di carburante e qualche stazione, pare, da raggiungere.

Se la democrazia ci ha messo millenni per affermarsi, significa che pochi se la meritavano. Oggi, con la rete elettronica che ci connette, siamo governati dagli algoritmi e dalla demente onniscienza della IA. Elezioni, presidenti e parlamenti, anche dove esistono, sono sempre più casuali e inutili. Figuriamoci che parte ha, in tutto ciò, lo spirito critico, il valore poetico. Il libro di poesie che chiederò di stampare in uno dei prossimi anni s’intitola, da tempo, Nessuno è al comando. Credo che sia la sigla più adeguata al mio giudizio su questo lungo, invasivo, futuro presente.

 
 
Foto di copertina di Dino Ignani