La luce è la lingua di un luogo – dialogo con Franca Mancinelli

Un dialogo tra Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli su Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli (Marcos y Marcos, 2020)

 
 

Tommaso Di Dio: Cara Franca, sono passati due anni dalla pubblicazione di Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020), il tuo quarto libro. So che in agosto il libro è in uscita in America, nella traduzione di John Taylor: All the Eyes That I Have Opened (Black Square Editions, New York). È un’opera che, riletta nuovamente adesso, a distanza di qualche tempo, mi appare ancora una volta un capitolo importante del tuo percorso di scrittura: mi sembra che, nella ricerca stilistica, mai più di così ti sia concessa ad un estremo.

Il libro mi pare dominato da due principi fra loro opposti e in felice contraddizione. Da una parte c’è una forza di rarefazione: i testi poetici vagano spaesati sulla pagina e si muovono come se fossero piccole isole alla deriva, rapite da una corrente geologica non definibile. La rarefazione emerge anche per via della differenza tematica e per la diversità di provenienza dei materiali testuali che raccogli. Eppure, ciascun testo porta con sé un principio di conservazione e di raddensamento: una forza nucleare, che agisce solo al minimo livello della sintassi e delle immagini coordinate. Questa forza contraddice la prima e fa sì che ciascun testo abbia una sua propria tenacità minerale, che sprigioni una forza attrattiva e magnetica. Questo contrasto di forze e di energie mi pare agire anche visivamente sulla pagina. Il bianco della pagina e quello fra le pagine sono spesso enfatizzati: sia per l’esiguo numero di versi, per esempio, oppure per il fatto che il testo è disposto in maniera tale – come proprio in quella sequenza che porta il nome del libro – che rappresenti una serpentina o un’onda oscillante o, ancora, dal fatto che alcune sezioni sono interrotte da pagine bianche dove compare, al centro, solo un piccolo simbolo di una spirale.

Rileggendoti in vista di questo nostro dialogo mi sembra che fin da Mala kruna e da Pasta madre fosse presente questo gioco di forze, fra qualcosa che tende ad aprire, a deformare, che spinge alla divaricazione e alla metamorfosi, e un altro principio che conserva e custodisce. Proprio in esergo al volume, torni su di un’immagina guida della tua scrittura, ovvero quella dello «stormo». Scrivi: «non può disperdersi/ si ricompone ad ogni svolta/ come uno stormo in viaggio». Cosa significa per te questa immagine imprendibile? Perché ti attrae l’immagine di un insieme di individui che si muovono insieme, sincroni, ma non si toccano mai né sono il medesimo pur tutti fra loro simili?

Te lo chiedo, perché questa domanda in me si lega ad un altro giro di versi, che sembra essere una sorta di refrain segreto della tua scrittura. Ci sono due versi che compaiono identici sia in Pasta madre che in Tutti gli occhi che ho aperto, ma inseriti al termine di due poesie parzialmente diverse. Anche qui: è un’immagine che contiene il disastro e la perfezione. In Pasta madre suonano così: «dischiusi all’equilibrio, hanno creduto/ al varo e alla deriva/ nel moto continuo. Anche i gabbiani/ passano su di loro senza grida./ Così dopo un incidente/ restano sull’asfalto frutti intatti.» Mentre in Tutti gli occhi che ho aperto hai scritto: «alla deriva, nel moto continuo/ anche i gabbiani/ passano su di loro senza grida./ Così dopo un incidente/ restano sull’asfalto frutti intatti.» Cosa è cambiato da Pasta madre? È come se un processo di erosione abbia fatto il suo corso, un desiderio di brevità, di rastremazione, eppure quei «frutti intatti» resistono, sia in Pasta madre che in Tutti gli occhi che ho aperto

Franca Mancinelli: Tommaso, sono commossa per la profondità e nitidezza fraterna del tuo sguardo che mi accompagna nella scrittura, così come nell’esistenza, nelle occasioni che abbiamo per ritrovarci, spesso attorno ai libri, nostri o di altri autori, in queste stazioni di sosta in cui possiamo fermarci a riflettere, a scambiarci consigli di rotta, sguardi sull’orizzonte, prima di riprendere il viaggio. Ecco l’immagine dello stormo che mi è molto cara, forse mi ha raggiunto da un’esperienza recente fatta accanto a Silvio Castiglioni, collaborando a un laboratorio teatrale che raccoglieva un gruppo molto eterogeneo di persone; si intitolava Luoghi: testimonianze vive ed era legato a un progetto di educazione alla cittadinanza degli Istituti culturali e del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di San Marino. Certo, l’immagine di uno stormo in viaggio che taglia il cielo è qualcosa che ha sempre richiamato il mio sguardo, come un avvertimento, un segnale, ma ora che mi ci fai pensare, credo che l’esperienza di questo laboratorio, fatta negli stessi anni in cui stavo ultimando Tutti gli occhi che ho aperto e soprattutto lavorando alla sua struttura, sia stata determinante nel riportarmi quell’immagine guida. Una delle prime esperienze fatte insieme è stata muoverci liberamente in uno spazio chiuso, camminando a diverse velocità, o correndo. Da qui, attraverso altre pratiche ed esercizi, si è formato lentamente quello che poteva assomigliare a un coro della tragedia greca: un corpo plurale, sincronico, capace di spostarsi nello spazio, compiere gesti, cantare; un “corpo stormo” da cui poteva di volta in volta affiorare una voce singola, un movimento individuale, per poi tornare nella coralità da cui proviene. Il mio compito era quello di raccogliere e guidare l’espressione scritta di questa esperienza, per cui ero libera di partecipare direttamente alle varie azioni teatrali o restare osservatrice interna. Questo preziosissimo dono di sguardo che ho ricevuto, mi ha dato la possibilità di seguire il progressivo formarsi di un corpo comune capace di proteggere e sostenere, di dare forza e incoraggiare ognuno a essere se stesso, a prendere la propria parte, a intonare il proprio canto, all’interno di questa comunità compatta e insieme libera, tenuta insieme da nessun’altra legge oltre al ritmo, alla pulsazione vitale, che Silvio come attore e regista custodiva.

Naturalmente all’origine di questa immagine dello stormo c’è, prima di ogni cosa, la mia esperienza di osservatrice e contemplatrice del cielo e delle forme della natura. Verso la fine dell’estate, mi capita spesso di assistere al passaggio di grandi stormi che attraversano l’aria portando un’altra vibrazione, che riconosco in qualche modo come una festa, come un segnale che riattiva e illumina le forze, forse qualcosa di simile a quello che provano gli spettatori del giro d’Italia, fermi al margine della strada, o quelli delle gare podistiche a cui partecipavo da bambina. Non è tanto un individuo che sta partecipando con tutte le sue energie per vincere, ma è tutta l’umanità che attraverso di lui è in festa per ciò che si sta compiendo.

Mentre lavoravo a Tutti gli occhi che ho aperto, mi sono accorta che il soggetto che di volta in volta prendeva parola – e che poteva essere umano, vegetale, o anche appartenente al regno minerale – rimodulava nella sua voce la stessa vibrazione, la stessa interrogazione che attraversa dall’inizio alla fine il libro e che ha a che fare con una forza di resistenza alla violenza, alle ferite che l’esistenza apre nel nostro corpo: una capacità di morire e di rinascere più volte, restando fedeli alla stessa essenza, alla stessa energia che cambia forma e stato attraverso le vicende. In questo libro ci sono anche zone traumatiche e di oscurità, ma vengono attraversate da quel soggetto plurale portatore di un principio vitale che è affermato nell’epigrafe e che presiede a ogni frantumazione e perdita.

La tua riflessione, Tommaso apre un orizzonte di meditazione… Non è possibile rispondere qui alle molteplici interrogazioni che porta. Provo a raccogliere l’ultima osservazione puntuale che hai fatto, su un frammento che, come hai notato, era già presente con alcune varianti in Pasta madre. Nessuno mi aveva richiamato prima su questi versi. Tornano in questo libro recente perché sono il tentativo di tradurre una stessa immagine che è con me da diversi anni, e che è entrata per la prima volta nella mia poesia in Pasta madre. Appartiene a un’esperienza che mi è molto cara e familiare, quella del restare sospesi sul dorso a lungo, sulla superficie del mare. Apri le braccia come ali e lasci tutto il tuo peso all’acqua. In un’estate di diversi anni fa, durante una di queste mie meditazioni marine, ho percepito chiaramente che, ad alcune miglia da me, altri erano distesi sulla superficie del mare, e non stavano “facendo il morto”, lo erano. Nessun lettore di Pasta madre ha riconosciuto la presenza dei migranti che era già in quel libro, immersa nella stessa visionarietà a tratti onirica che lo pervade (anche il testo seguente, trafigge il sole polsi abbandonati richiama simili drammatiche immagini che in quegli anni, come oggi, ci raggiungevano dalla cronaca). In Tutti gli occhi che ho aperto, quando mi sono accorta che il migrare e trasmigrare era il motivo che teneva insieme la pluralità di forme e voci di questo libro, ho recuperato quel testo, cercando di liberarlo di qualche dettaglio che forse arrestava l’immagine, non le permetteva di liberarsi. Il testo che apre quella breve sequenza e quello che la introduce (il morto si può fare: braccia aperte e l’infinito dei morti), possono accompagnare il sorgere di quell’immagine, il suo formarsi e affiorare; di fatto, tutta la sequenza agisce nella creazione di una stessa immagine pensiero, da angolature e prospettive più o meno vicine. Da una parte nel lavoro sul testo c’è stato, come dici, un processo di “rastremazione”, dall’altra, nella struttura della sequenza, un processo inverso, per portare maggiormente l’immagine alla luce.

 

TDD: Tutti gli occhi che ho aperto si apre con una sequenza di testi molto forte: Jungle. Sono stati scritti in una zona di confine, di transito, di traffici umani e di dolore. Mi ha colpito molto il fatto che tu dica “io”, ma che al contempo questo “io” sia radicalmente altro da te. Non era mai successo che un tuo libro si aprisse così, che si aprisse con una così radicale esclusione del soggetto. Mi sembra che se altrove nella tua scrittura l’io si è dimostrato poroso (già in Pasta madre scrivi «quello che sono è una finestra»), mai prima la permeabilità della tua scrittura è giunta ad un livello tale da immergerti integralmente in una “vita altra”. Cosa ha significato per la tua scrittura questa interposta persona? Sembra qui che non una storia, ma la Storia, la grande violenza della storia e dei destini generali ti abbia toccata entrando con forza nella tua scrittura. È così? Stai meditando di tornare su questi temi e ne senti l’urgenza?

FM: È proprio come dici Tommaso, hai riconosciuto qualcosa che in effetti non mi era mai capitato prima con la scrittura, dare direttamente la voce a un altro. Di fronte a quella storia drammatica che mi aveva raggiunto, ho sentito un senso di responsabilità e insieme di tragica impotenza: come potevo testimoniare? Con quale diritto? Quanto di fittizio ci sarebbe stato nelle mie parole? Mi trovavo sul confine tra Serbia e Croazia per un progetto europeo legato alle rotte dei migranti che coinvolgeva artisti di diversi paesi e di diverse discipline. È un viaggio che ho raccontato nelle prose uscite in Come tradurre la neve, alcuni estratti sono entrati in Diario di passo, l’ultima sezione di Tutti gli occhi che ho aperto. Ero a pochi chilometri dal confine che permette di entrare in Europa, camminavo in un bosco spoglio, dove alcune capanne improvvisate portavano i segni di bivacchi recenti. Questo bosco è chiamato dai migranti jungle, non woods, proprio perché è un luogo pericoloso. Ho incontrato alcuni migranti che erano ancora lì, tra il bosco e il fatiscente “One-stop center” di Adasevci, che, con un eufemismo, si potrebbe chiamare “centro di accoglienza”. Alcuni si avvicinavano cercando di parlarmi attraverso il cellulare, con google translator. Speravano che potessi fare qualcosa, dare loro notizie ai familiari, informarli sul permesso che attendevano… Ma noi non eravamo lì per questo, non avevamo gli strumenti né possibilità concrete di aiutarli se non mettendoli in contatto con alcune Ong che lavoravano sul posto. Siamo così risaliti sul nostro pulmino, taciturni, portandoci addosso un confuso senso di colpa misto all’odore incancellabile della plastica bruciata che due afghani, in una baracca, utilizzavano per riscaldarsi. Già lontani, nel caldo del nostro albergo, ci ha raggiunto tramite una Ong la notizia di una donna violentata nel bosco di Adasevci, a cui era stato portato via il bambino. Questo fatto non sarebbe mai arrivato ai giornali e ai canali ufficiali di informazione, perché chi si accampa in quel bosco è “invisibile”, non riconosciuto dallo stato che preferisce non dover concedere diritto di asilo e, di conseguenza, tramite la polizia ricaccia indietro i migranti al confine. Quella vicenda drammatica era consegnata al silenzio dei mezzi di comunicazione e anche della mia parola che era come paralizzata: sentivo di non potere trovare una forma per tradurla sulla pagina, né una lingua che non fosse artefatta. Se avessi incontrato quella donna nel bosco, mi avrebbe parlato attraverso mozziconi di frasi tradotte da google. Ho provato così ad abbandonare ogni pretesa di adesione alla realtà, a mettere da parte il timore della retorica, e a lasciare il più possibile nuda la mia voce, e ho incontrato questa storia, dall’interno di un’esperienza che appartiene a troppe donne per non essere detta in poesia, e su cui questo libro torna altre due volte, in declinazioni diverse, nella sequenza che intitola il libro e in Camera oscura. Ciò che è accaduto a questa donna migrante, ha le stesse vibrazioni della violenza che pervade le relazioni tossiche della nostra quotidianità e anche, in modo più tragico, della nostra cronaca. Poiché siamo tutti intrecciati nella stessa trama, queste vibrazioni sono le stesse di un faggio dell’Appennino che ha perduto un ramo, di un myosotis calpestato, della giovane Lucia che passa attraverso il martirio e sembra morire ma continua a vivere, proprio come la luce sulla terra. Ciò che faccio in queste pagine e di fronte al ripetersi di una stessa fine che torna, è in sostanza quello che dice un verso di Luminescenze: «Chiudo gli occhi e attraverso l’immagine». È questo che ho provato a fare nel libro, per ritrovare, al di là delle forme, dei soggetti e delle vicende, la stessa energia che continua oltre ogni perdita, oltre ogni violenza, «per una legge di gioia si trasforma».

 

TDD: A uno dei testi più belli del volume, dal titolo 13 dicembre (p. 79), mi sembra tu affidi con piena precisione poetica la tua idea della poesia, un’idea che è anche “politica”. Scrivi: «tutta la forza del mondo/ non sposta un raggio di luce// ora sei tu il cardine// – da queste ceneri ti sto versando la voce». Come leghi insieme poesia e responsabilità, nella tua esperienza di lettrice prima ancora che di scrittrice? In che modo è possibile avere fiducia nella scrittura, se altrove nel libro tu stessa scrivi – nella sezione Diario di passo – «Qualsiasi cosa fai, si scioglie come un fiocco di neve sulle mani» (p. 116)?

FM: La mia esperienza è quella di una lettrice totale, voglio dire, di qualcuno che cerca di leggere tutta l’esistenza, tutto ciò che accade, anche nell’oscurità. È qualcosa che sto realizzando di recente, il fatto che tutto è lingua, anche noi lo siamo, siamo la scrittura di un autore anonimo (la vita), con le nostre ombre e ferite, come con le nostre realizzazioni.

Questi primi versi che hai citato sono debitori della mia lettura di un’immagine, la pala dipinta da Lorenzo Lotto, dedicata a un episodio della vita di Lucia; mi piace chiamarla così, con il suo nome che è luce stessa. Questa giovane donna di fronte al potere che la condanna, alza un dito (così nella pala di Lotto) indicando l’origine di ogni cosa e connettendosi con questa forza primigenia che la rende inamovibile, indistruttibile. La leggenda vuole che file di buoi non riuscirono a spostarla, che il fuoco non la bruciò e che fu uccisa infine con un pugnale alla gola. Per me Lucia è emblema di quella forza inerme, originaria, che non può essere distrutta dal mondo. E in effetti, tutto il progresso e la tecnologia non sono arrivati al punto di spegnere la luce o di controllarla. Quel dito che Lotto ha immaginato levato in alto come a indicare appunto l’origine, la provenienza, è la radice più salda che possa esserci, ed è una radice che affonda nel cielo (nella direzione opposta dove solitamente ci affatichiamo a costruire e fondare la nostra esistenza). Da questa prospettiva la condizione di migranti non è legata a vicende avverse, ma appartiene alla nostra essenza di esseri umani. La poesia assomiglia molto a quel gesto di Lucia, un gesto che ci permette una ricongiunzione con il nostro essere più autentico, un gesto che ci rende indistruttibili e che ci radica nella vera terra.

Leggendo un’altra antica immagine dedicata a Lucia, questa volta di Crivelli, ho visto che la palma del martirio è la sua penna. Una palma, come un ramo tagliato, uno di quei piccoli rametti con cui da bambini abbiamo tracciato segni sulla sabbia, sulla terra bagnata. La scrittura, nella sua forma più alta, non lascia segni: è un movimento della luce, è la nostra possibilità di “mettere in luce”, portare gli occhi dove non si sarebbero fermati o non così a lungo, non tanto fino a vedere, fino a riconoscere la vita che continua a rigenerarsi nella materia. Ho fiducia nella scrittura tanto più mi riporta alla pagina vuota, a questa pagina che vibra, abbagliante, che è l’aria stessa in cui siamo immersi. È molto bello Tommaso il tuo pensare alla scrittura con l’immagine di un fiocco di neve che si scioglie sulle mani, un’immagine che viene dal racconto di un volontario in Croazia. Non avevo pensato prima a questo collegamento. È per me un generatore potente di significato… e mi riporta alla tua intuizione iniziale, e cardinale, tra due istanze, una che tende a conservare e custodire e un’altra ad aprire e cedere alla metamorfosi. E ora grazie a te penso alle mani del volontario lungo la rotta Balcanica, mani arrese di fronte alla moltitudine di migranti e all’impossibilità di fare qualcosa per quanto ci si impegni a fare il possibile, accanto alle antiche mani di una delle piccole statuette in bronzo di offerenti, rivolte al cielo, in uno stesso gesto che ringrazia e chiede grazia. E accanto alle mani che, in aspetto che scenda la luce compiono un gesto materno, di cura, custodendo la vita affiorata dalle pietre, e con lo stesso amore, la rendono all’aperto da cui proviene. La responsabilità della poesia a cui facevi riferimento, Tommaso, è tutta qui, in questo rapporto tra creare una forma, custodire, e restituire.

 

TDD: Fra i tanti che amo, ho trovato un tuo verso che porto sempre con me, che ho voluto imparare a memoria. Tu scrivi «la luce è la lingua di un luogo» (p. 102). La tua scrittura sembra abitare uno spazio incerto, sempre reale, ma spesso privo di connotazioni che lo identificano in un nome proprio. Eppure c’è sempre la sensazione che la tua poesia sia situata, che nasca dal contatto con un luogo preciso del mondo e che se ne faccia carico, sia esso il confine croato o il monte Titano a cui dedichi una sezione molto bella. Il geografo Franco Farinelli ha scritto che il luogo è «una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun’altra, che non può essere scambiata con nessun’altra, senza che tutto cambi.» In che modo i luoghi incontrano la poesia? E la poesia: che luogo è?

FM: Nei miei libri che precedono Tutti gli occhi che ho aperto non c’è quasi nessun nome proprio, né di luogo né di persona. Le uniche eccezioni sono, credo, il toponimo Ardizio in Mala kruna e il nome di Maria in Pasta madre, un nome molto significativo nella mia vita (è il nome della madre di mia madre, il mio secondo nome cancellato, e quello che avrei dato anni più tardi a mia figlia). Un nome simile a una luce che ci si passa nel buio.

Non chiamare le cose con il proprio nome può significare non riconoscerle, restare nell’indeterminato, nel generico. Credo che nella mia scrittura accada qualcosa di diverso, come dici, perché il punto di partenza per me è sempre un’esperienza concreta, radicata in un vissuto; questo materiale passa poi attraverso un processo di spoliazione, per arrivare a un nucleo oltre il quale non è possibile togliere nulla, perché è in qualche modo l’essenza indistruttibile, ciò che appartiene a ognuno, trasformandosi.

Negli anni di Pasta madre sentivo la poesia come fossile del nostro passaggio sulla terra. Nel mio libro recente, Tutti gli occhi che ho aperto, credo ci sia un maggiore affioramento di materia, in particolare nell’ultima sezione, Diario di passo, e nella parte iniziale della prima, Jungle. Sono le due sezioni debitrici del mio viaggio nei Balcani, sulla rotta dei migranti. E probabilmente l’apertura, anche spaziale di questo libro è dovuta proprio a una maggiore orizzontalità, a un’aderenza maggiore a un contenuto che non ho trasfigurato, come primo intento, ma su cui ho lavorato per cercare prima di tutto di portarlo alla parola, nel ritmo della lingua e delle immagini. Forse è la durezza di questo contenuto, la “difficoltà” che ho incontrato nel testimoniare in poesia la condizione dei migranti, che mi ha guidato. Prima avevo affrontato soprattutto la durezza di ferite e fratture personali che affidavo all’energia metamorfica della parola per restituirle al vissuto di ognuno, alle correnti del cosmo, ma il contatto iniziale con il dolore dell’altro, questo punto di partenza “esterno”, è qualcosa che non mi era capitato prima, come tu stesso notavi. Questa realtà non passa attraverso i filtri sottili a cui ero solita affidarmi. E quindi c’è un residuo maggiore, c’è più concretezza. Forse per questo Tutti gli occhi che ho aperto è il libro in cui sono presenti più toponimi; e non a caso, soprattutto dei Balcani: Zagreb, Kraj Donji, Adasevci, Susak. Sono entrati nella scrittura anche perché sento in loro qualcosa che mi chiama, forse quella valenza magica che Florenskij riconosce prima di tutto nel nome, come parola che chiede di essere avverata, «centro di parole», crocevia di destini. Questo libro si è in parte creato seguendo appelli e inviti che mi venivano dalla realtà esterna, progetti a cui ho collaborato e che hanno guidato la mia scrittura. Un aspetto che ho sempre guardato con scetticismo, poiché rivendicavo l’origine interiore della poesia. Ma lavorando a questo libro mi sono accorta della trama interna che teneva insieme questi testi apparentemente “esterni” e disparati; l’apertura al non conosciuto, mi ha inevitabilmente riportata al centro delle mie questioni, nella mia ferita e, mi ha permesso di riconoscerla nella sua bellezza, «come un’opera della vita».

È questo per me il luogo della poesia, un luogo in cui avviene una metamorfosi che porta in sé un’azione riparatrice, una cura, una forma di riscatto. Per questo la poesia è un luogo di soglia, al confine tra la realtà quotidiana e una dimensione prossima all’origine, alla sorgente di energia, di amore, da cui ogni cosa trae esistenza.

In Tutti gli occhi che ho aperto c’è una sezione, Luminescenze, dove il deposito di realtà quotidiana è più rarefatto, più portato in prossimità di questa dimensione altra di cui parlavo. Uno dei suoi frammenti evoca proprio i luoghi:

lungo la rete di sangue asfaltato
le ceneri dei luoghi
aspettano di viaggiare come polvere sacra.

Potrebbero essere le ceneri della fine, quella dell’esistenza che termina portando con sé anche i luoghi in cui si è radicata, in cui si è inscritta la sua vicenda. Ma anche le ceneri della fine di un mondo dove non ci sono più luoghi, così come li intende Farinelli, luoghi unici, insostituibili, che custodiscono l’identità e la storia della nostra esistenza, e dove si vive in uno spazio sospeso e indifferenziato, simile a quello virtuale. Questi brevi testi vengono dopo la sezione eponima del libro e sono apparentemente ancora provocati dall’energia di quel trauma, dal tentativo di rielaborarla. Dicono infatti della tensione, della lotta per superare una stasi, un blocco forzato («dove lo scorrere del fiume si interrompe»), di una trasformazione («corro. E sto fermo all’incrocio») di una rinascita e ricostruzione, di un tornare al mondo grazie alla parola poetica («con la forza del niente»), di come riavere un cuore, ritrovarlo come risorsa e non come ferita e soprattutto di come ritrovare il centro, il punto da cui rinascere, ricominciare. Attingendo al potere più grande che abbiamo, quello dell’attenzione, ci riconnettiamo con ciò che sempre rinasce: la nostra vita torna a compiersi, come il cerchio di un compasso; nei nostri occhi chiusi riaffiora l’immagine iniziale, torniamo all’origine. «I dove sono tutti provvisori», ma l’unico luogo a cui apparteniamo, l’unico luogo in cui radicarci, è questo punto che si apre e ci custodisce all’infinito come il grembo di un mare dove aspettiamo di nascere.

 
 

punto gli occhi e si compie
la mia area, il cerchio della vita.
 
 
*
 
 
negli occhi chiusi una sorgente
di pupille –luminescenze
trascorse tra globi
custodi di un’unica immagine
gravitante nella polvere esplosa.
 
 
*
 
 
l’infinito dei morti
espande un’altra galassia.
Il rosso nel buio continua
a sfociare nel mare
dove siamo senza corpo accucciati.