L’esperienza del poeta si fa paesaggio letterario – dialogo con Matteo Bianchi

Un dialogo tra Tommaso Di Dio e Matteo Bianchi su Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscoli sul Po agli influssi emiliani (Mimesis, 2023).

 
 

Tommaso Di Dio: Matteo, nel tuo recente libro, Il lascito lirico di Corrado Govoni (Mimesis, 2023), affronti in maniera sorprendente il tema del paesaggio. Sai che il tema mi incuriosisce molto, per via di alcuni miei studi sulla poesia contemporanea, ma mi ha sorpreso la tua declinazione. In che modo la categoria concettuale ed estetica del paesaggio ti si è parata davanti come un’opportunità ermeneutica? In che modo ne hai sentito l’esigenza?

Matteo Bianchi: Ho cominciato circoscrivendo l’esperienza di Govoni che si scopriva poeta, per il quale lo scenario prediletto era una Ferrara “dai tetti rossi”, “silenziosa” e “metafisica”, dove l’attenzione per le geometrie visibili e quelle invisibili era intrinsecamente collegata alla ricerca di un principio originativo quanto ordinatore. Ma la sua come quella del giovane Filippo de Pisis, non fu una piena adesione alle dicotomie tipiche della metafisica, piuttosto una propensione a lasciarsi coinvolgere nel vortice visivo ed emotivo della raffigurazione, senza indugiare nella sfera del simbolico, rinunciando a un altrove non ancora e non del tutto percepibile. Se del Pascoli disincantato Govoni ereditava la nebbia padana che copre con una coltre la vista quanto la volontà di realizzare un pensiero, di metterlo in atto, i banchi nebbiosi mistificano l’orizzonte ne Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Bassani come nascondono fattezze e verità allo sguardo indagatore di Roberto Pazzi in Calma di vento (1987) e, ancora, di Matteo Pazzi nel suo caproniano cacciatore disarmato (2008): “La nebbia a riccioli / imbavaglia le zolle / di terra”. Per anni la costante identificazione con il portato esistenziale di alcuni caratteri accomunanti della terra d’origine ha alimentato la mia esigenza, ma di più, ha motivato magari ingenuamente un senso di appartenenza concettuale di fronte all’incessante dilatazione dell’orizzonte conoscitivo. E purificandomi, al contempo, dai dissidi accademici e dalle etichette canoniche, tanto che ho rifiutato da subito l’opposizione fuorviante del Govoni futurista al presunto anti-futurista.

 

T.D.D: Nella tua analisi dei lasciti e dei prestiti che la poesia di Govoni ha distribuito fra gli autori della sua epoca e non solo, a un certo punto ci si imbatte in un passaggio un poco sconvolgente. Analizzi una celebre similitudine di Ungaretti – forse la sua più celebre – e ne rintracci la forma nella poesia di Govoni e più indietro, in Leopardi e Omero. In che senso questo gioco di scambi influisce nell’idea di paesaggio letterario? Mi sembra che ne possa nascere quasi una diversa idea di letteratura.

M.B.: Il mio cammino nei versi dei venti profili autoriali che scandiscono Il lascito lirico di Corrado Govoni – il ventunesimo che si staglia alle loro spalle, quasi fosse sostanza della loro stessa ombra – è cominciato da una coincidenza: stavo lavorando con il caro Attilio Bettinzoli, a Ca’ Foscari, su L’inaugurazione della primavera, datata 1 giugno 1915, la prima opera crepuscolare di Govoni che si smarca dal grigiore pluviale e dalle scalinate interminabili di oggetti, dagli elenchi di abbinamenti tra sostantivi e a aggettivi di uso quotidiano che hanno caratterizzato la sua fase precedente e più manierista, così Armonia in grigio et in silenzio (1903). A colpirmi è stato un verso in particolare, un endecasillabo mancato, che spicca nella descrizione precaria dei mendicanti dispersi per la provincia ferrarese, vittime della campagna impoverita: “come in autunno d’ogni albero le foglie”… che poco dopo Ungaretti frammenterà nel lampo di Soldati, dall’esordio de Il porto sepolto (1916). Di fatto, il poeta copparese applicò con vaghezza il codice conoscitivo che era in suo possesso e, per quanto tendesse a sminuire la sua effettiva istruzione, finì per degradare la sua stessa biblioteca di riferimento: non erano topoi ma loci – luoghi comuni, cliché se vogliamo – non solo interpretati artisticamente male, ma correlati ancora peggio.

Un “liberty selvaggio” che gettava “grucce connettive”, non ganci, “che culmina nell’animismo mitizzante, un po’ come il dinamismo pittorico può culminare, se mi si passa l’analogia, nel cartone animato”. Impietoso, ma impreciso a sua volta, lo stroncava Sanguineti nel 1983, durante un convegno all’Università di Ferrara, non tenendo conto però dell’inesorabile trasmutazione linguistica da un secolo all’altro, da un’impostazione sociale a un’altra, implicazioni mediatiche incluse e da non sottovalutare. Scoccare un concetto fecondo per l’umanità oltre la barriera del tempo e il conseguente mutamento della lingua, dipende dalla persistenza di un topos, o meglio, dalla possibilità di capire se un luogo comune abbia il peso e la tempra di un “portavalori”, anziché di un semplice cliché: se n’è occupato Quondam osservando il “cambio di pelle” del classicismo nel lessico attuale.

T.D.D: La città di Ferrara è a un certo punto del saggio il centro di uno spazio di irraggiamento. La sua nebbia e il profilo dei suoi edifici sono posti sotto una luce di più inquadrature: cinematografiche, romanzesche, poetiche, pittoriche e memoriali. In che modo la nozione di paesaggio può aiutare a far uscire la letteratura da se stessa? Troppo spesso chi si concentra sulla letteratura non riesce a stabilire proficuamente legami con le altre forme d’arte: mi sembra che invece tu riesca benissimo…

M.B.: Se Morandi dai confini in dissolvenza di una fila di bottiglie sopra un tavolo sguarnito ritrae la demarcazione dei tetti bolognesi e di un cielo incerto, quasi mai sereno, Angelo Andreotti (1960-2023), che è tra i suddetti profili poetici, astrae e ricalca il perimetro delle mura ferraresi nel corso della sua intera produzione come congiunzione tra l’antico e il moderno – vd. Tra parola e mondo (2021), ma senza nominare mai esplicitamente i suoi camminamenti.

Non si toglie dagli occhi quel dolore,
quel volto chino, quel corpo lasciato,
accovacciato a ridosso del muro,
quel volto stretto e chiuso tra le gambe
abbracciate per farsi invisibile
e nascondere i suoi giorni
insignificanti e colpevoli
ai nostri sguardi sottratti alla grazia.

Tuttavia le letture e gli esempi si moltiplicano; d’altronde, il paesaggio come si palesa nel linguaggio partecipa al discrimine tra novecentismo e anti-novecentismo. Si pensi al paesaggio urbano, metallico e industriale, spezzato nel discorso e nella prosodia, de La ragazza Carla di Pagliarani o a quello disteso e affratellante di Bertolucci, a quello malinconico e pacatamente sofferente di Caproni, a quello negato a Sinisgalli dalla malattia che diventa icona di un passato fulgido e irraggiungibile, a quello rabbioso e femmineo (“l’utero del mare”) di Goliarda Sapienza, a quello inerito ma non esposto – non sarebbe più possibile – nella prose en prose di Giovenale, a quello prosaico e collegato alle immagini di Sara Ventroni (Nel gasometro, 2006), al paesaggio luziano intriso di sacralità e conflitto, agli scorci surrealistici e in parte ermetici di Sereni e della guerra, Saba e il paesaggio “onesto” fino (o a partire sempre da) la desolazione eliotiana. Per proseguire con questa carrellata di punti cardinali, personali ma condivisibili, mi volgo al rapporto tra arte e scienza nella poesia contemporanea. La stessa natura, riportata letterariamente come ecfrasi del fenomeno empirico e che proprio Govoni “vedeva al pantografo” – almeno a detta di Montale, risente di svariate influenze tra psicoanalisi (Zanzotto e Villalta), filosofia (Dal Bianco), psicologismo con radici pop e innovazioni liriche (De Angelis) e, non da ultimo, il classicismo di Claudio Damiani, che mette in dialogo il paesaggio con la fragilità dell’individuo, dettata dalla sua inconsapevolezza biologica, e la natura si rivela una manifestazione materica quanto etica del reale.

 

T.D.D: Mi ha colpito il legame che tratteggi, verso la fine del volume, fra Umberto Bellintani e Corrado Govoni. Due poeti che sicuramente non metteremmo tra gli autori più canonici e che invece riservano sorprese e che meglio di altri possono illuminare con profondità aree e caratteristiche di un certo luogo: come se con la loro libertà e con la loro eccentricità si offrissero meglio a comprendere nella propria opera un certo genius loci; penso per esempio anche a Antonio Delfini. La nozione di paesaggio aiuta anche in questo senso, a non dare troppo peso agli autori già canonizzati e ad aprire, invece, lo sguardo verso autori che con un eccessivo automatismo consideriamo secondari?

M.B.: Nella premessa al saggio chiamo in causa due testi in particolare, Fuori le mura. Antologia di paesaggi letterari della pianura padana (1991), a cura di Monica Farnetti e Giorgio Rimondi, e Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna (1998), di Gian Mario Anselmi e Alberto Bertoni. E la ricerca di Bertoni sul genius loci e la geocritica, che ho continuato a seguire, mi è stata fondamentale per orientarmi. Per quanto concerne la secondarietà di alcuni autori, dipende forse dalla funzione promozionale e dall’eccessiva esposizione di quelli considerati canonici in una zona intermedia tra popolarità e raggiungibilità. Il paesaggio sancisce anche scuole, linee, correnti, ma attraversa trasversalmente le generazioni. E anche se solo in parte, Goliarda Sapienza che prima ho citato, ha subito la sua stessa provenienza. Sono diversi, difatti, gli intellettuali del centro-sud che hanno scontato una regionalizzazione, o peggio una provincializzazione, non ricevendo il dovuto riguardo dalla critica, così Iolanda Insana e Assunta Finiguerra. Lo slancio neodialettale ha rivitalizzato i cosiddetti “regionalismi” e, quindi, le radici linguistiche locali, dichiarando una realtà che si va a diversificare e allargando la dicotomia tra generale e particolare, tra unità della lingua e parzialità. Per non parlare delle antologie e dell’annoso problema degli esclusi – o presunti tali – di cui tu hai vissuto gli effetti in prima persona e che compartecipa alla secondarietà di alcuni autori, perfino al di là dei fenomeni epigonici.

A fare da specchietto è sempre e comunque l’io, il rapporto tra la vita propria e l’altrui che sancisce la compattezza e la resistenza del luogo in cui agisce. Non a caso, l’evoluzione del romanzo dal Neorealismo all’incapacità di definire il Postmoderno, ha influenzato inevitabilmente gli altri generi letterari. Giorgio Bassani, non potendo superare la lacerazione interiore inflittagli dalla Shoah, ha inseguito con la scrittura una verità dolorosa che non aveva più a che fare con la mente e con gli occhi, con le costruzioni astratte della giovinezza e con quanto non concerne l’io, bensì con un cuore montalianamente “scordato” che si collocava al di fuori per interrogare i vinti, gli arresi, soprattutto i morti. Che questa metamorfosi dell’io, per dirsi compiuta, dovesse comportare nel tempo anche un mutamento del paesaggio, lo provano alcune liriche dedicate a distanza di anni ai luoghi vallivi de L’airone (1968). La storia, o meglio, gli eventi che si sono conficcati nella linea narrativa dal Dopoguerra a oggi, hanno generato delle increspature nell’immaginario, condizionandone le rappresentazioni creative e persino gli esiti concreti: tu stesso lo hai sottolineato in Poesie dell’Italia contemporanea. E lo manifesta tanto il paesaggio caricaturale come quello distopico di futuristi e sperimentali, o quello di un flaneur che dissacra qualsiasi filtro ideologico, così il bestiario di Bertoni, Culo di tua mamma (2022), per chiudere il cerchio della risposta.

 

T.D.D: A un certo punto scrivi della «gentile vocazione per il mondo vegetale» di Filippo de Pisis (p. 150). Ricordo che recentemente ho ascoltato uno studioso, Stefano Mancuso, parlare delle piante e di come, sosteneva, il nostro cervello non fosse adatto a percepirle perché sostanzialmente si muovono molto lentamente: e così diventano sfondo di un’azione e mai protagoniste, sebbene occupino più del novanta per cento della biosfera. In che modo la critica letteraria può aiutarci a svelare questo spazio che sfugge alla percezione?

M.B.: Di pari passo alla magia, che invera agli occhi senza debiti razionali, rammenta Lagazzi nel recente I volti di Hermes, la poesia enuncia il visibile al pari dell’invisibile, oggettivandolo e legittimandolo tramite l’utilizzo su più livelli intersecati delle figure retoriche. La critica può approfondire la letteratura dedicata alle piante, e penso alla serie imponente pubblicata da Luca Sossella per la curatela di Mino Petazzini. D’altro canto, gli alberi di Tiziano Fratus intervengono silenziosamente sul paesaggio e all’interno del campo visivo che noi introiettiamo senza movimenti bruschi né imposizioni, occupando con la loro presenza pacata uno spazio vitale. E sembrano ricalcare le infiltrazioni riparatrici delle filosofie orientali nel modus vivendi occidentale, nella frenesia caotica che spesso ci vincola alla superficie della realtà e ne sacrifica i particolari. Parallelamente, Chiara De Luca sta scrivendo con un’intensità inedita e difficile da eguagliare del legame con il suo cane, Titti, teneramente soprannominato “Pinolo”, dando tono e memoria a un sentimento gratuito e smisurato tra due esseri viventi, coi rispettivi limiti di specie: “Ma io ascolto poesia in ogni canto del mondo. Ovunque raccolgo il piccolo senso del giorno, uno sguardo da chiamare casa, il sussurro racchiuso in ogni cosa, l’incontro con chi non conta: le ore, il favore, le parole”. Dunque piante e animali non si riducono soltanto a uno sfondo, tantomeno a mere personalizzazioni dei tipi da strada, ma esercitano un’azione consustanziale alla nostra; basti pensare alla parola animale, vegetale e minerale agognata da Anna Maria Farabbi, a come l’inanimato partecipa all’animo e all’animalità che ci permeano».