Il “Libricciattoluccio”. Su “Po(e)mi da un penny” di James Joyce

Quando si parla di James Joyce1, lo si fa riferendosi anzitutto a Ulysses e Finnegans Wake, poi a seguire a Dubliners e A Portrait of the Artist as a Young Man. In misura residuale ci si ricorda della sua produzione poetica, considerata per lo più una sorta di laboratorio minore in cui l’autore si divagava o affinava i suoi strumenti in attesa dell’ispirazione definitiva. Le cose non stanno proprio così.

Sono due le raccolte poetiche pubblicate da Joyce in vita, a un ventennio di distanza l’una dall’altra: Chamber Music del 1907 e Pomes Penyeach del 1927, dalle quali non ottenne il successo di pubblico e critica sperati. Occorre subito notare che Chamber Music fu il primo libro in assoluto pubblicato da un Joyce; aveva venticinque anni e viveva fra Roma e Trieste assieme alla compagna Nora con cui aveva abbandonato l’Irlanda poco tempo prima. Dunque possiamo decisamente affermare che il suo esordio editoriale fu come poeta.

Questo non dovrebbe sorprenderci, se consideriamo che in gioventù, oltre a una poesia scritta a soli nove anni, Et Tu, Healy dedicata al patriota irlandese Parnell, Joyce aveva già realizzato alcune decine di liriche inserendole in due raccolte, Moods e Shine and Dark, a noi non pervenute. Per quanto la sua attività di compositore di versi fosse discontinua e poco prolifica, non smise mai di esercitarla. Nel corso degli anni scrisse varie poesie d’occasione, strofe in forma di limerick, parodie in versi (fra tutte quella su Wasteland di T.S. Eliot), poemetti satirici (come le invettive contro la comunità letteraria ed editoriale irlandesi, The Holy Office del 1904 e Gas from a Burner del 1912), l’ultima poesia Ecce Puer in occasione della nascita del nipotino Stephen nel 1932 e il postumo Giacomo Joyce, un testo in prosa poetica pubblicato nel 1968.

È però fondamentale a questo punto sottolineare quanto siano proprio le sue stesse prose a essere invece impregnate di poesia. Tutti i libri di Joyce sono disseminati di citazioni e riferimenti, più o meno evidenti, a numerosi poeti che lui stesso studiava o ammirava, da Yeats a Swinburne, da Milton a Moore e non ultimi Shakespeare e Dante, forse il più amato. Stephen Dedalus nel Portrait sostiene che il più grande poeta inglese è Lord Byron, compone una “villanella” in contemplazione intellettuale di una ragazza amata in segreto, poi in Ulysses (il cui titolo riverisce l’Odissea di Omero) fantastica sulla metrica del tetrametro giambico abbozzando alcuni versi sulla spiaggia di Dublino. Nella sua produzione saggistica interviene su William Blake, James Clarence Mangan e Thomas Hardy, nelle sue traduzioni si occupa di Paul Verlaine e Orazio, nelle lettere ai familiari e agli amici cita versi di William Wordsworth, Ben Jonson e John Dowland…

È indubbio che per quanto non fosse espressamente poeta di mestiere, Joyce era e restò sempre un poeta nel suo reiterato e infaticabile lavoro di ricerca sulla parola, sviscerata e forgiata nella sua più misteriosa e mutevole problematicità e musicalità.

Pomes Penyeach include dodici poesie composte da James Joyce in un periodo di dodici anni, dal 1912 al 1924, con l’aggiunta della prima, Tilly, composta nel 1904 a Dublino. Le otto successive furono scritte a Trieste scritti a Zurigo tra il 1912 e il 1915, ulteriori tre a Zurigo fra il 1916 e il 1918, l’ultima a Parigi nel 1924. Uscirono dapprima separatamente su riviste letterarie come le statunitensi Saturday Review e Poetry, per poi essere tutte raccolte in volume il 5 luglio 1927 dalla casa editrice Shakespeare and Company Parigi di Sylvia Beach, con cui era stato pubblicato anche Ulysses nel 1922.

Nel 1932, per le case editrici britanniche Obelisk Press e Desmond Harmsworth, la raccolta uscì in una nuova edizione in tiratura limitata, corredata dalla riproduzione dei testi nella calligrafia corsiva di Joyce e dalle illustrazioni della figlia Lucia che disegnò le lettere iniziali (le “Lettrines”) di ciascuna poesia: l’intento era di aiutarla nel fragile stato emotivo e psichico che attraversava, affidandole un incarico che le permettesse di esprimersi artisticamente. Uscirono poi revisionate di alcuni refusi nel 1933 e nel 1939 con Faber & Faber.

Il titolo Pomes Penyeach è ispirato ai venditori ambulanti di mele a un penny l’una, sfruttando l’assonanza fra “pomes” (mele, dal francese “pommes”) e “poems” (poesie). Il libro uscì non a caso con una copertina color verde chiaro che ricordasse quello delle mele Calville, le preferite da Joyce (che nel 1933 ne fece recapitare tredici in dono a Sylvia Beach), e fu messo in vendita a uno scellino, corrispondente a dodici pence (quindi un penny l’una, più la prima in omaggio). Si può trovare un richiamo a tutto ciò in una scena di Lestrygonians, l’ottavo episodio di Ulysses:

 

— Two apples a penny! Two for a penny!

His gaze passed over the glazed apples serried on her stand. Australians they must be this time of year. Shiny peels: polishes them up with a rag or a handkerchief.

 

— Due mele un penny! Due per un penny!

Il suo sguardo passò sulle mele glassate esposte sul bancone. Australiane devono essere in questo periodo dell’anno. Bucce lucenti: lucidarle con uno straccio o un fazzoletto.)

 

A differenza della precedente Chamber Music, che offriva un insieme di liriche strutturate su nascita crescita e conclusione del sentimento amoroso, questa raccolta comprende invece poesie scritte in periodi e luoghi differenti, su una varietà di temi e stati d’animo più intimi e complessi riconducibili anche vicende personali dell’autore, rispecchiando quanto in merito all’arte lirica lui stesso aveva affermato nel suo Taccuino di Parigi, il 6 marzo 1903:

 

Art is lyrical whereby the artist sets forth the image in immediate relation to himself.

L’arte è lirica laddove l’artista ponga l’immagine in relazione immediata con sé stesso.

 

Il poeta Ezra Pound, l’amico il cui impegno fu determinante per la pubblicazione del Portrait e di Ulysses, criticò negativamente il manoscritto di Pomes Penyeach, giudicando le poesie adatte “alla Bibbia o all’album di famiglia”, nonostante dietro le rime emergesse quella nuova sostanza imagista di cui Pound era iniziatore, caratterizzata nei contenuti dalla significatività dei colori, delle immagini, degli elementi naturali, e nella forma dalla brevità e frammentarietà. Di opinione opposta a Pound fu invece il poeta statunitense Archibald MacLeish, il cui giudizio positivo incoraggiò Joyce a farle pubblicare. Ma in effetti il libro non ricevette sostanziali attenzioni o favori dalla critica e dal pubblico e questo suscitò delusione e scoramento in Joyce; dopo il successo internazionale di Ulysses, il “maledetto romanzaccione” che lo aveva reso popolare nel mondo, ora si trovava a raccogliere diverse critiche negative sui primi frammenti pubblicati del suo nuovo “libromaccione” Finnegans Wake, mentre il suo “libricciattoluccio” Pomes Penyeach passava per lo più inosservato.

Tuttavia nel 1933, sei anni dopo la pubblicazione, uscì con il titolo di The Joyce Book e la cura del compositore irlandese Herbert Hughesius, una raccolta di tredici composizioni musicali inedite ispirate alle poesie di Pomes Penyeach, da parte di altrettanti musicisti dell’epoca. L’anno prima, nell’aprile 1932, Joyce aveva anticipato la felice notizia dell’uscita della raccolta musicale con una sua piccola poesia, Pennipomes Twoguineaseach:

 

Sing a song of shillings
A guinea cannot buy,
Thirteen tiny pomikins
Bobbing in a pie.
 
The printer’s pie was published
And the pomes began to sing
And wasn’t Herbert Hughesius
As happy as a king!
 
 
 
 
Canta una canzone di scellini
che una ghinea non può comprare,
tredici piccole pomizucche2
che galleggiano in una torta.
 
La torta del tipografo è pubblicata
E i versi cominciarono a cantare
E non era Herbert Hughesius
felice come un re!

 

Il fatto che in quegli anni anche diverse liriche di Chamber Music venissero messe in musica, conferma la primaria rilevanza della musicalità per Joyce nel proprio lavoro di poeta.

La compagna Nora, che non leggeva i suoi oscuri libri, lo rimproverò sostenendo che piuttosto di dedicarsi alla scrittura, Joyce avrebbe dovuto fare il cantante. James aveva in effetti ereditato una buona voce da tenore dal padre John, mentre il figlio Giorgio intraprese una carriera da cantante lirico di registro basso negli Stati Uniti; anche James ci aveva provato, impegnandosi e cimentandosi fin da giovane nello studio del canto, ma le scarse finanze, l’incostanza e probabilmente anche la presenza all’epoca a Dublino di un altro importante tenore come John McCormack, fecero arenare il progetto. Eppure non gli impedirono affatto di dedicarsi alla musica e alla poesia, attraverso tutti i suoi libri.

Nel corso dei suoi tanti cambi di residenza, un pianoforte in casa era comunque una presenza costante, così come nelle abitazioni nelle quali erano ambientate le storie di Dubliners. Fra i racconti ve ne sono alcuni in cui la musica è da considerarsi a tutti gli effetti fra i personaggi della narrazione, come A Mother o Clay o lo stesso conclusivo The Dead. Nel Portrait spesso sono rievocate canzoni e filastrocche (fin dall’incipit) mentre la sua creazione più estrema, Finnegans Wake, del quale lui stesso sosteneva essere solo musica pura, ci ricorda un aneddoto riportato nella nota biografia di Richard Ellmann, secondo cui quando a Trieste nel 1915 Joyce si trovò a spiegare il significato di Simples, uno dei componimenti di Pomes Penyeach, al suo allievo Oscar Schwarz, questi si oppose alle sue interpretazioni ritenendo che invece quella poesia fosse semplicemente pura musica; Joyce gli rispose: “Lei capisce la mia poesia.”

Sulla questione vale la pena riportare quanto nella conferenza di Italo Svevo su Ulysses tenuta nel marzo del 1927, poco prima dell’uscita di Pomes Penyeach, l’amico scrittore triestino affermò lucidamente di lui:

 

[…] l’orecchio suo è del poeta e del musicista. Io so che quando il Joyce ha scritto una pagina pensa di aver tratta una parallela ad una pagina musicale ch’egli predilige. Questo sentimento che non so se accompagni l’ispirazione, perché so solo che la segue, prova il suo desiderio. […] Egli stesso dispone di un organo tenorile magnifico […] Ancora adesso la signora Joyce rimpiange che il marito abbia preferito l’arte cha ha fatto di lui uno degli uomini più noti ma anche più odiati al mondo anglo-sassone cui egli contro voglia appartiene. Il suo eclettismo musicale gli fa aprire ampie le braccia al futuro.

 

Del resto, di come parole e musica in Joyce potessero compenetrarsi generando quel mistero poetico con cui le sue pagine ancora oggi ci attraggono e ci pongano in contatto con i richiami delle nostre profondità o di quelle dell’universo tutto, ce ne lascia un’interpretazione lo stesso Leopold Bloom, nell’episodio Sirens, il più musicale e poetico di Ulysses, dove “c’è musica ovunque”. Come si legge al suo interno:

 

Words? Music? No: it’s what’s behind.

Parole? Musica? No, è quel che c’è dietro.

Andrea Carloni

 
 
 
 

1 Questo estratto viene pubblicato in anteprima assoluta e fa parte dell’introduzione della traduzione delle poesie di Pomes Penyeach di James Joyce, tradotte e presentate assieme ai testi originali, secondo l’ordine e le indicazioni di data e luogo inviate dall’autore il 27 maggio 1927 a Sylvia Beach, che le pubblicò a Parigi con la sua casa editrice Shakespeare and Co. il 7 luglio dello stesso anno. Il volume è di prossima pubblicazione nella Nuova Collana Scilla di Samuele Editore.

2 Il gioco di parole “pomikins”, unisce “pomes” (“poemi/pomi/mele”), “pumpkins” (“zucche”), con cui sarebbe preparata la “pie” (“torta”, così come la pumpkin pie, torta di zucca) del tipografo/pasticcere.