Struttura formale e senso di chiusura – Ultimo tormento

Nel mirabile saggio Poetic closure: a study of how poems end (University of Chicago Press 1968) Barbara H. Smith si pone l’ambizioso obbiettivo di enucleare i diversi elementi che, nella lettura di un testo poetico, collaborano per suscitare nel lettore il “senso di chiusura” – la risoluzione delle attese nate nel corso del testo. Questi elementi vengono divisi in formali e tematici, quindi in strutturali e non-strutturali. Merita forse soffermarsi un attimo su queste categorie per maggiore chiarezza: Smith intende come formali quegli elementi che emanano dalla natura fisica della parola (quindi sostanzialmente dalle sue caratteristiche sonore), tematici quelli che sorgono dalla sua natura simbolica (quindi recepibili solo da chi comprende la lingua). Per questo un aspetto come la sintassi, che in molti dei nostri critici è trattato come elemento formale, viene invece definito tematico. Strutturali sono quindi gli elementi che contribuiscono in maniera sistematica alla definizione della struttura (tematica o formale) di una poesia, non-strutturali quelli che intervengono in maniera non sistematica. Ad esempio, le rime esterne di un sonetto o una canzone sono parte integrante della sua struttura formale (quella struttura che li rende tali, appunto, sonetto o canzone), e quindi elementi formali e strutturali, ma la rima che spesso chiude i testi di Montale no, sebbene abbia indiscutibile importanza nel garantire il senso di chiusura del testo. È un elemento formale e non-strutturale.

Nell’ultimo capitolo, il meno approfondito del saggio, Barbara H. Smith propone qualche osservazione sulla poesia moderna, sostanzialmente senza andare molto oltre quanto si può leggere nei nostri studiosi che hanno affrontato l’argomento: tratto caratteristico della poesia – e forse di tutta l’arte – moderna è il progressivo indebolirsi dei tratti di chiusura, dei “confini” dell’opera1. Enrico Testa, nell’ultimo capitolo del saggio Per interposta persona (Bulzoni 1999), individua fra gli aspetti linguistici caratteristici della poesia italiana degli anni ’70 e ’80 una «riduzione dei confini della testualità perseguita con l’attenuazione dei segnali di inizio e di fine»; a mio avviso (ma non c’è motivo di credere che l’opinione dell’autore differisca) questo dato non è da interpretare come uno scarto dalla norma vigente fino ai decenni precedenti, ma come l’ulteriore fase di un fenomeno riconoscibile già a partire dal ‘700. Leggiamo in Mengaldo, Com’è la poesia (Carocci 2018): «con lo scorrere del tempo le chiuse con puntini sospensivi diventano sempre più frequenti», e lo stesso vale anche per gli elementi di ciclicità, che suggeriscono una chiusura debole (il ripiegarsi del testo su se stesso) ma sufficiente a garantire lo scioglimento delle attese del lettore, secondo una tradizione riconducibile almeno all’Infinito di Leopardi.

A questa debolezza del tratto di chiusura il lettore odierno è in buona misura abituato, forse anche riconducendola al più ampio panorama della brevitas, della reticenza e frammentarietà che ci si aspetta da un testo poetico2. E tuttavia le attese di qualche elemento di chiusura persistono, e ne persiste, in certi autori più di altri, una almeno parziale risoluzione, se è vero che (contro le migliori intenzioni di vaste aree della scrittura contemporanea) la lettura di un testo poetico può ancora essere un’esperienza piacevole (magari anche perturbante, beninteso, ma esteticamente piacevole) o in qualche modo soddisfacente. In altre parole, credo che molte delle migliori poesie, oggi come in passato, diano al lettore la sensazione di finire esattamente là dove dovevano finire, si risolvano senza lasciare attese residue o aspettative frustrate; il che dipende in parte dall’adeguamento del gusto del pubblico a chiuse sempre meno risolute, ma in parte indubbiamente dal persistere di elementi archetipici di chiusura, magari sotto forme mutate o contraffatte, ma ugualmente in grado di essere percepite, anche solo a livello subconscio, dal buon lettore. Tornando alle categorie di Smith, vorrei dimostrare che persino quella che sembrerebbe – e quasi certamente è – la più intaccata, quella degli elementi formali e strutturali, continua a giocare un ruolo importante nella creazione e gestione delle attese del lettore; ci farà da esempio l’ultima raccolta di Antonio Riccardi, Tormenti della cattività (Garzanti 2018), e nello specifico la sezione Ultimo tormento. Lachrimae.

È certamente vero che, aprendo un libro di poesia scritto quantomeno negli ultimi cinquant’anni, non abbiamo modo di prevedere quale sarà la forma metrica o strofica dei testi che lo compongono3 (con eccezioni rarissime e, dopo Quare tristis di Raboni, direi tranquillamente trascurabili). Questo vale anche per le opere di Riccardi, che tuttavia, fin dagli esordi, non ha mai mancato di dividere le sue poesie in strofe perlopiù tradizionali (spessissimo quartine o terzine), elevandone il grado di pulizia e affidando anche alla grafica testuale quelle partizioni intonative e segmentazioni del pensiero che sono convinto giochino un ruolo ineludibile in tutta la migliore poesia, ma che spesso restano indicate o suggerite da punteggiatura, sintassi, consecutio temporum, cambi di scena, …

La divisione in strofe gli consente di suscitare aspettative nel lettore anche qualora le forme utilizzate non siano immediatamente riconoscibili: vediamo appunto il caso della sezione Ultimo tormento4, divisa a sua volta in due sottosezioni. La prima (Ex voto) – una visione del padre defunto che a sua volta vede suo padre e i suoi in posa per una foto, come chiarito dal sottotitolo – si apre con cinque testi dall’identica struttura strofica (due terzine), dove la continua riproposizione di elementi lessicali, le aperture con l’avverbio «oscuramente» e il tema pervasivo della morte creano un effetto martellante e quasi ossessivo che accompagna questa sorta di discesa ad inferos, suggerita anche dalle coordinate spaziali («il posto dove sei sepolto», «a picco sul Prato di sotto», «sul fondo», «stare sospeso tra adesso e dopo», «dall’ombra»). I versi, come di consueto nell’opera di Riccardi, oscillano tra l’endecasillabo e il settenario, ma colpisce in questi componimenti l’insistenza su versi irregolari, con intonazione ambigua e raddensamento accentuale, specie in chiusa5 («che prima di noi sono già morti.», «qui nella camera dove sei morto.»).

Si procede, giustamente, al dialogo coi morti, in una poesia più lunga e perfettamente simmetrica dove il padre si rivolge al figlio insistendo sul suo nome (con qualche eco sereniana). Seguono altri quattro componimenti con la consueta struttura di due terzine, ma dove è stemperato il carattere ossessivo: l’io riprende la parola, secondo un modus caratteristico della poesia di Riccardi, nella quale spesso, dopo aver ceduto il discorso a una persona loquens, l’io poetico torna a intervenire, magari contraddicendo, o correggendo, o anche solo per porre in dubbio quanto è stato appena detto (nel caso specifico «ma loro sono loro davvero, papà?»). Lentamente si esce dal sogno, mentre sbiadiscono le figure di questa nekyia e fra loro anche il padre, nell’ultima poesia, in un verso breve (ottonario) che sfuma nei puntini sospensivi, dove il figlio è chiamato un’ultima volta a “sentire”6.

La seconda sottosezione, Prove per un cenotafio, ci accompagna in una passeggiata per un cimitero in cui, curiosamente, ogni lapide è quella dell’autore: si susseguono quattro epitaffi, di nuovo con una forma identica e piuttosto ossessiva, e l’identica formula conclusiva «Respice finem». Arriviamo quindi all’ultima poesia (di tutta la raccolta, se si esclude l’Enigma alla fine):

 

Quando tu morirai, io morirò.
Morirò senza dir niente, niente
a nessuno, nessuno.

Respice finem e infatti anch’io
come tutti, senza esclusione
ero un uomo, ma non ero giusto.

 

Il tono in precedenza piuttosto elevato da iscrizione monumentale genera un contrasto quasi stridente col primo verso, torna a istituirsi l’io poetico e insieme ad esso un’ambiguità circa il tu, che può riferirsi all’amata (tu abituale della raccolta), all’Antonio Riccardi di cui abbiamo appena letto gli epitaffi, o persino al padre, a cui si rivolgevano le poesie di Ex voto. Le figure di ripetizione (epanalessi e anadiplosi) sono prive di ogni sforzo di occultamento e il ritmo dell’adonio (il «respice finem» che ancora riecheggia) è negato, quasi a sorpresa, nell’ultimo verso.

Soprattutto ci interessa il ritorno di quella struttura strofica di due terzine che è ormai immediatamente riconoscibile dal lettore, ma scaricata, grazie all’intervallo di quattro testi, del suo potenziale percussivo e ossessivo. In una ripetizione seriale, ci insegna infatti B. H. Smith, non c’è modo di stabilire quale elemento sarà l’ultimo, e ogni finale è pertanto avvertito come arbitrario. Invece Riccardi, istituendo un pattern, variandolo e riaffermandolo un’ultima volta, risponde a uno degli archetipici modelli della composizione e ne ottiene un finale che, pur senza rime, lessico topico o a effetto, un’accentazione tradizionale o la ricerca di particolari eufonie, suona indubbiamente giusto.

 
 

In copertina: Wormhole, 2012-13 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 41.5 x 34.5 cm Edition of 3 + 2 A.P. + 1 P.P. Courtesy of the artist, private collection. Fonte: https://www.doppiozero.com/disorientamento-illusioni-e-paradossi

 
 
 
 

1# Nello stesso senso si può leggere anche lo sfumare delle forme metriche, se consideriamo che la prima funzione del metro è proprio quella di cornice, di separare il discorso poetico da quello in prosa.

2# Sempre Mengaldo: «tratto caratteristico della poesia (e dell’arte) moderna è che non crede più di poter dire tutto, ma solo qualcosa».

3# Possiamo leggere in A. Soldani, Le voci nella poesia. Sette capitoli sulle forme discorsive (Carocci 2010) che «la metrica contemporanea ha rinunciato alla sua funzione di genere». Tanto che non è facile, anche in caso di riferimenti espliciti – come i Mottetti di Montale o le Canzonette di Fortini – fare previsioni sulla struttura formale dei testi, e spesso il rimando è più a un’atmosfera che non a una precisa forma metrica.

4# Accennerei che nell’intera opera di Riccardi la sezione viene spesso a ricostruire quel significato che forse elude il singolo componimento, a fornire contesto ed elementi interpretativi al lettore in virtù di una rigorosa coerenza interna e di un ordine testuale altamente funzionalizzato – credo fosse questo che intendeva Villalta in Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea, Rizzoli 2005, parlando di «lavoro sulla forma libro».

5# L’intonazione ambigua e il raddensamento accentuale in chiusa sono peraltro un tratto caratteristico di tanta poesia, come elementi in grado di assicurare un anche brusco rallentamento finale; pensiamo, giusto per fare un esempio, all’ultimo verso del sonetto 19 di Petrarca «e so ben ch’i’ vo dietro a quel che m’arde» o a quello del sonetto 73 di Shakespeare «To love that well wich thou must leave ere long».

6# Ricordo che la prima raccolta di Antonio Riccardi, Il profitto domestico, Mondadori 1996, dopo la dedica alla memoria del padre, si apriva con un testo piuttosto criptico in cui l’io poetico “sente” – e il verbo è ripetuto due volte – le vite degli antenati (svelate nella poesia successiva). «In sospensione» e «d’estate», fra l’altro, ma queste considerazioni ci porterebbero lontano; in questo Riccardi ricorda Bach: in ogni frammento agiscono, in nuce, gli stessi elementi e principi che compongono tutta l’opera.