Eredità ed Estizione di Giovanna Frene


Frutto di un decennio di lavoro (2012-2022), il nuovo libro di Giovanna Frene (Eredità ed Estinzione, Donzelli 2024) piomba come un meteorite su un panorama letterario dominato da prodotti facilmente assimilabili e – soprattutto per quanto riguarda la poesia – orientati allo stile semplice e a un marcato soggettivismo lirico. Suddiviso in sette sezioni (Antichità romane; Sestine bizantine; Canzoni all’Italia; Larve acquatiche; Linea Gotica; Mayerling (I-XXX); Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda)1 precedute da un Introitus. Sestina funebre e concluse da un Explicit, fin da questo dato strutturale Eredità ed Estinzione è riconducibile alla tipologia del libro di poesia (non quindi raccolta, più o meno organizzata) così caratteristico della tradizione italiana, da Petrarca a Zanzotto e oltre. Ma nonostante la pubblicazione in una collana di poesia, i testi che lo compongono si possono definire poetici solo parzialmente, prima di tutto perché la prosodia sfugge a qualsiasi principio formale nelle sequenze di versi lunghi o versi-frase; in secondo luogo perché (e conseguentemente) le indicazioni di forme metriche tradizionali negli intertitoli e sottotitoli non corrispondono a effettive sestine o canzoni, mancando del tutto uno schema metrico cui ricondurre strofe e rime. Pertanto «il verso ha come unico identificatore veramente generale l’a capo grafico; un semplice indice che però rimanda ad una realtà sostanziale, la segmentazione del discorso»2, e in questa pervasiva tendenza alla poesia in prosa a poco serve – se non per curiosità o scrupolo analitico – ricercare l’emergenza di versi tradizionali, quasi certamente casuale e indotta dal patrimonio delle letture, per non dire dall’orecchio tout court. In testi così poco lirici ma anzi narrativi fino alla ridondanza descrittivo-argomentativa, in cui prevalgono le disarmonie, le asperità, gli scontri fonici, un ritmo ‘poetico’ si coglie purtuttavia in virtù di ripetizioni lessicali ed espedienti fonici come rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, figure etimologiche: «come sempre vivere attentamente in perenne mobilitazione, anzi / pensare finalmente a un’eredità biologica senz’altro fondamento, / dove un riformato non riformi mai davvero il mondo, ma solo sempre lo finisca» (p. 39); «beata ci fu questa lunga dormita / che al turista commuove la vita» (p. 43); «qui dove Storia ha decretato la fine / di Fortuna, la fine di Storia decreterà uno sbollire sommesso di annate tanto simili alle uova, / prova del fatto che lo studio contro natura realizza in pieno l’arte della sepoltura» (p. 47); «densa fusione di fatti e sorti, porti tralasciati come possibili torti, / tetri cavalli irsuti vomitati perché tiepidamente creati, / che vengono come quinte squillanti con denti di belva, selva / che il quarto ha mietuto col rombo di ferro» (p. 52), giusto per fare alcuni dei molti esempi possibili. Altrove la prosa vera e propria entra come citazione (anche molto estesa, come nelle Canzoni all’Italia, con stralci dal diario di un combattente nella Prima guerra mondiale, avverte la nota di p. 120) o articolata nota esplicativa (in corpo minore) direttamente nel testo (Sestina bosniaca I. Epoca Bella; II. Prospezioni; III. L’attimo fuggente)3 o infine mero elenco di nomi (Herzgruf alla fine di Mayerling XXX. Pferd).

In tale commistione di versi e prosa è quasi inevitabile che il discorso si faccia più arduo quanto ai primi, caratterizzati da una sintassi a cumulo non immediatamente perspicua negli snodi (si veda per esempio, da Diplopia 9 agosto 378 d.C.: «fu mentre i due schieramenti cozzavano come navi rastremate / a squassare l’armonico fluttuare dell’onda oplitica / che a uno sguardo più ravvicinato avrebbe rivelato / i volti terrorizzati dei soldati romani morti sul posto / piombò come un fulmine su montagne altissime / la cavalleria dei Goti con un contingente di Alani / che sfracellò l’ala sinistra dei cavalieri romani, // quella parte sempre invincibile della storia» (p. 20), dove il primo che ha valore sia consecutivo (fu mentre… che… piombò…) sia relativo (dell’onda oplitica che). Spesso è una falsa ipotassi che si segmenta e sfrangia anche per le violazioni interpuntive, come in Sopra un vaso antico: «lo spettacolo è un rapporto sociale / a pagamento: tra doppia finzione e immaginare / il male, si stende il mare indifferente / ai moti perpetui dell’anima. chi / scende e chi sale vascelli si estende in un fregio / continuo: la meraviglia dei denti stretti è che vivono / in società come uomini. teche con petali / in tassidermia, tassonomie / stipate in schedari bronzei; le vittorie, tutte cantate, viola / giallo-oro. e / che chiaro verde vede flettersi un raggio immacolato / di pappi scuri sparsi, sparpagliati da tifoni impercettibili, vorrebbero / visti, essere, immortali, / annegati» (p. 23). Ellissi e lacune – del discorso e quindi del senso – sono d’altronde sistematiche e in moltissimi casi incolmabili nonostante i pur espliciti riferimenti contestuali, come si può vedere in questi versi tratti dalla sezione Larve acquatiche (dedicata ai terribili bombardamenti angloamericani di Dresda fra il 13 e il 15 febbraio 1945): «con interi comparti che non sapevano nuotare o nuotavano / male, con interi spiedini infilati ordinati dalla sera prima, chi / ancora ardente, nel gonfiore di larve esse stesse metalliche, / meglio a quel punto immergere al più presto la custodia / in acqua e guardare la città che brucia di fronte, / inanellando intorno a sé nuove pietre / preziose più della vita // – pagliuzze ossee» (da Oggetto: larva acquatica II, p. 68). Quanto al lessico, il suo fondamento culto è ulteriormente accentuato dal sistematico citazionismo (vuoi nella forma di prelievi diretti vuoi in quella dell’allusione o della parafrasi) ma con significative aperture all’inclusione di lacerti di italiano semicolto – come già ricordato – o di componimenti in dialetto (Canzoni all’Italia, IV. «al martirio con devozione accolta, pp. 48-49 e XI. Sendre e orbàra, pp. 60-61).

Per quanto riguarda i contenuti, Eredità ed Estinzione è di fatto un libro di storia e di intensa meditazione sulla storia, da quella remotissima delle ultime fasi dell’impero romano, prima di soccombere alle invasioni barbariche del V secolo, a quella della guerra civile nell’ex Jugoslavia nella prima metà degli anni Novanta dello scorso secolo, passando attraverso Prima e Seconda guerra mondiale. Stante l’educazione anche musicale dell’autrice, non sembrerà inopportuno definirlo una ‘sinfonia’ il cui tema principale – la Grande guerra – è variamente modulato e attraversato da motivi che istituiscono parallelismi (la diplopia o visione sdoppiata che collega la battaglia di Adrianopoli del 378 d.C. a quelle combattute sul Monte Pertica tra il 1917 e il 1918; l’inarrestabile penetrazione dei Goti in Occidente dopo quella disfatta e la Linea Gotica della permanente instabilità balcanica nel Novecento: da Sarajevo 1914 a Sarajevo 1992-1996) o suggeriscono analogie tramite schegge e aneddoti: dalle riflessioni attribuite a Marco Aurelio all’evocazione di Attila ‘piccolo padre’ o di quel Petrus Gonsalvus di Tenerife (1537-1618), affetto da un’impressionante ipertricosi che pure non gli impedì di sposarsi e riprodursi trasmettendo la patologia ad alcuni dei suoi figli: esempio minore (e peregrino) ma a suo modo emblematico dell’ininterrotta sequela di ‘mostri’ che biologia e sonno della ragione non smettono di generare nel cosiddetto progresso dell’umanità. Da Adrianopoli (teatro di un’altra celebre battaglia nella prima guerra balcanica del 1912-1913, quella ‘descritta’ da Marinetti in Zang Tumb Tumb) alla guerra di Crimea del 1853-1856, presentata come una raggelante messinscena post eventum o tableau mourant, a quelle già ricordate del Novecento, lo sguardo di Frene affonda come un bisturi – ossessivo, implacabile, dolente – nel groviglio di cadaveri che è premessa ed esito di ogni «caldo bagno di sangue». Se la natura – scrive Foscolo nei Sepolcri – ci manda un sospiro dal tumulo, quello della storia è l’urlo sempre presente e sempre destinato a svanire di milioni di vittime, il rombo della violenza di cui è sostanziata e che la definisce come dimensione del conflitto permanente intervallato da periodi di pace o stasi anziché il contrario (di cui ci illudiamo). Tutto ciò ci interroga continuamente, gettandocelo in faccia, prendendoci a schiaffi, sul senso-nonsenso dell’agire umano, sulle finalità (giuste, ingiuste, il più delle volte inutili) di conflitti che scoppiano e finiscono senza sosta, trascinando nell’abisso del tempo anche quelle costruzioni politiche e culturali che sembravano non dover cadere mai: il grande impero romano mediterraneo (su cui memorabilmente Leopardi, nella Sera del dì di festa: «Or dov’è il suono / di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi, e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano? / Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di lor non si ragiona») o l’impero austroungarico alla fine della Prima guerra mondiale, sicché «ogni volta non finiscono gli imperi || finisce la fine»; «ogni volta finisce la fine || non finiscono gli imperi», si asserisce, lapidariamente, in Diplopia 9 agosto… (pp. 17 e 22).

Centro nevralgico della meditazione-rivistazione attuata da Frene, il conflitto del ’14-’18 è stato anche la prima guerra tecnologica e di massa in Europa (anticipata da quella di secessione americana e, in certa misura, dalla franco-prussiana del 1870) e quindi guerra della morte di massa, del ‘sacrificio umano’ di milioni di soldati di cui resta soltanto un nome e per moltissimi di loro nemmeno quello (si veda in proposito la potente retorica del milite ignoto). Il motivo, da sempre dominante nella poesia dell’autrice, della morte intesa, indagata, interrogata in quanto annientamento subitaneo del corpo e conseguente decomposizione, attraversa perciò questo libro dall’inizio alla fine, si concentra sugli ultimi istanti di vita, sul momento del trapasso delle vittime di ogni conflitto ma anche di ogni persona cara: si veda a tale proposito l’ultima, bellissima poesia dedicata alla madre, il cui transito è descritto – coerentemente con il tono generale – nei termini allegorici di uno scontro armato da intendersi come vittoria o tradimento: «improvvisamente il viso cambiò colore / come si cambia bandiera // tutte le cellule morte invasero il territorio / delle cellule vive e lo conquistarono // piantando il vessillo della vittoria / sul saliente della vista» (p. 115), dove risuona la conclusione della baudelairiana Spleen: «l’Angoisse atroce, despotique, / sur mon crâne incliné plante son drapeau noir». La versione latina del testo (di Gianluca Furnari), a pie’ di pagina, ne enfatizza il tono e la compostezza ‘classica’. Così «quando venne colpito dalla lancia di un cavaliere goto / nella mente del veterano romano che stava fuggendo / all’immagine del cavallo, che agognava per la fuga, / per un attimo si sostituì il bagliore delle mura di Costantinopoli» (pp. 17-18); «l’accorgersi del morire fu la nostra vera conquista, non come / un sonno santo e beato scivolammo nel passato della vita, ma fretta / della fine ci penetrò e un sentimento grandissimo ci squassò da dentro» (p. 45); «Che cosa vedevano i vostri occhi, in fondo al bivio / fessurato? […] che cosa avete pensato / quando siete morti?» (p. 56): percezione del momento della morte e ultimi pensieri prima della fine che rinviano di nuovo a un testo leopardiano, quel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie così presente anche a Zanzotto, il quale nel distico «Che fu quel punto acerbo / che di vita ebbe nome?» individuava la «poetica-lampo» e perfino il senso di «tutta l’opera di Leopardi».4

Questo motivo della morte organica è esplorato anche nella già ricordata sezione Larve acquatiche, ispirata al lavoro dell’artista francese contemporaneo Hubert Duprat, il quale impiega i tricotteri (insetti che allo stadio larvale si costruiscono astucci di detrito utilizzando un filo di seta che secernono da una ghiandola posta vicino alla bocca) perché realizzino i loro bozzoli con frammenti di metalli preziosi, perle, pietre dure, ottenendo così da questi involontari artefici-orefici ‘oggetti’ al tempo stesso naturali e culturali e ponendo – all’incrocio tra neodadaismo ‘organico’ e concettualismo – la questione dell’inevitabile percezione e valutazione estetica. Posta al centro esatto del libro, e concepita come l’ecfrasi del contenuto di sei teche di «un ipotetico “Museo di Arti Applicate” a Dresda» (nota a p. 122), Larve acquatiche ne è la mise en abyme o la sineddoche, se le parole per i morti del 1945 – decine di migliaia di vittime innocenti sotto una vera e propria tempesta di fuoco (provocata dal lancio prima di bombe esplosive e poi incendiarie) – sono come i rottami preziosi con cui il poeta-tricottero richiama ancora alla vi(s)ta i corpi – carbonizzati, polverizzati, liquefatti – di quelle persone, che equivalgono agli innumerevoli altri distrutti da ogni guerra. Nell’ultimo testo della serie, il più visionario appunto, Frene ricorre – segnalandolo in corsivo ma senza esplicitarne la provenienza – ad altri ‘frammenti di frammenti’ ovvero le istantanee di quel bombardamento fissate da Kurt Vonnegut nelle pagine finali di Mattatoio n. 5 (1969): «Dresda ormai era come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti»; «Quella mattina in vari angoli di Dresda affluirono prigionieri di guerra di diversi paesi. Erano stati scelti i posti dove si doveva cominciare a scavare per trovare i corpi. E gli scavi cominciarono. […] si misero a scavare nella ghiaia inerte e poco promettente della luna. Era un materiale franoso e c’erano di continuo delle piccole valanghe. Vennero scavate subito molte buche. […] Un soldato tedesco si calò con una pila, e non risalì per un pezzo. Quando finalmente tornò su disse a un superiore sull’orlo della fossa che là sotto c’erano dozzine di corpi. Erano seduti sulle panche. Così va la vita. Il superiore disse che bisognava allargare l’apertura e infilarvi una scala, per poter estrarre i cadaveri. Così cominciò a funzionare la prima miniera di cadaveri di Dresda».5 Questo l’esito poetico: «… quella mattina confluirono in vari punti di *** prigionieri di guerra di vari paesi, / a scavare a mani nude nella ghiaia inerte della luna. Era una materia fluida, / ma stranamente intricata, un talco di progressive valanghe / che toccavano solo la terra, o cupole invertite nella polarità / palindroma, seduta su panche in cenere la schiera trasognata senza senno, senza senso, divenuto uomo» (p. 72). L’umano – il suo concetto biologico – si afferma quindi al massimo dell’evidenza quando giunge al massimo dell’evanescenza, alla liquefazione dei corpi investiti dall’altissima temperatura provocata dai bombardamenti e – nella zona dell’Altmarkt della città, dove erano stati costruiti quei serbatoi idrici, in funzione antincendio, che ritornano più volte nella sequenza – dalla successiva cremazione in piazza di altre migliaia di cadaveri, per evitare il diffondersi di epidemie.

In Larve acquatiche l’autrice finge di descrivere il contenuto inesistente di un museo immaginario, ma documenti e reperti di quel bombardamento sono effettivamente custoditi nelle teche del Militärhistorisches Museum der Bundeswehr (Museo di storia militare della Repubblica Federale) di Dresda e la città ha anche un Kunstgewerbemuseum (Museo delle arti applicate) situato nel castello di Pillnitz. La sezione successiva (e la più ‘manieristica’ del libro) – Linea Gotica – è anch’essa l’esito di un’ecfrasi di manufatti e/o grafiche fantastici (anticipati peraltro dal «Vaso in cristallo di rocca, detto Lucerna del Danubio, rinvenuto in una tomba gota nei pressi dell’antica Marcianopoli, ora nel Museo Archeologico di Sofia», come recita l’apparentemente ineccepibile esergo di Sopra un vaso antico, p. 23) che si troverebbero nel Museo d’Arti Applicate dell’Aja (dove esiste peraltro un importante Kunstmuseum con settore di arti applicate). Alcuni di questi manufatti sarebbero elementi decorativi a rilievo del Tribunale Internazionale che ha sede nella città olandese e dove, tra il 2001 e il 2006 si svolse il processo per crimini di guerra contro l’ex presidente della Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro Slobodan Milošević (ritrovato morto nella cella del carcere dell’Aia, dov’era detenuto, la mattina dell’11 marzo 2006). Ma il primo di essi è un complesso assemblaggio – realizzato «nella primavera del 1946 a Norimberga dal fattorino del Pubblico Ministero, tale Slobodan, durante i tempi morti» (p. 75) – con al centro la conchiglia incisa di un Nautilus pompilius (da cui il titolo Conchiglia con politica e la dedica allo storico Carlo Ginzburg, che ha fatto seguire la riedizione del suo celebre saggio Storia notturna. Una decifrazione del sabba, nel 2017, dallo scritto Medaglie e conchiglie, ancora su morfologia e storia). Frene sovrappone perciò il processo di Norimberga ai criminali nazisti a quello dell’Aja al serbo Milošević e rimescola nomi e cognomi (il supposto nipote croato del fattorino Slobodan si chiama Marković, come la famigerata Mirjana, moglie e consigliera del leader serbo).

Il secondo manufatto, «un dettagliato capitello di un corridoio centrale del Tribunale dell’Aja, scolpito / nel 2005» (p. 78), reca come elemento peculiare una palma curvata ma non spezzata da un grande tronco, a significare allegoricamente «il pensiero dello statista / serbo, il quale riteneva essere fondamentale per un politico mantenere l’unità del suo / Stato in modo appunto che nessuna avversità lo potesse spezzare» (ivi stesso). Segue un «disegno preparatorio / del medaglione in terracotta monocroma» (p. 80) nel quale l’unico dettaglio menzionato è quello dell’«uomo che estrae un interrato», emblematico della «virtù della volontà al di sopra di ogni avversa rappresentazione temporale» (p. 81): entrambi questi prodotti sarebbero stati realizzati da membri di comitati internazionali pro- Milošević, così come il quarto, relativo alla decorazione ad altorilievo «della parte centrale del timpano sovrastante l’entrata del Tribunale Speciale dell’Aja», rappresentante «la Virtù Sconfitta in lacrime sul sepolcro del più grande Suicidato della Storia» (p. 82). Il sesto e ultimo è il disegno «della placca di peltro che sovrastava / lo scranno dei giudici al Tribunale Internazionale dell’Aja, raffigurante l’ormai classica iconografia della nave / nel fortunale» (p. 84); dopo l’incendio che si finge avesse distrutto il Tribunale nel 2019, di quella placca rimane qualcosa porta a stabilire la «sorprendente […] somiglianza della nave / superstite con una mandibola umana» (p. 85).

L’insistenza sull’identità corporea cancellata e/o residuale è alla base anche del successivo poemetto Mayerling (I-XXX) già anticipato dall’omonima poesia in Sestine bizantine (p. 31) posta immediatamente prima delle tre Sestine bosniache dedicate all’attentato di Sarajevo, a significare che quel delitto – omicidio-suicidio o doppio omicidio dell’erede al trono d’Austria, l’arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena e della sua giovanissima amante, la baronessa diciassettenne Maria Vetsera – avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 gennaio 1889, può essere inteso come uno dei sinistri presagi della prossima finis Austriae nel generale collasso dell’Occidente sui campi di battaglia della Grande guerra. In tutti questi componimenti la ricostruzione dei fatti si fonde con il gusto dell’aneddoto e della diceria, e il registro ironico che corre lungo tutto il libro giunge spesso al sarcasmo. L’illustre e lunghissima trafila degli Asburgo – già compromessa nel corso dei secoli da quelle tare ereditarie di cui la più nota è quella del prognatismo mandibolare – giunge con Rodolfo a uno dei suoi ultimi membri: vittima di un’educazione rigida fino alla crudeltà, che avrà come esiti un rapporto difficilissimo con il padre Francesco Giuseppe, l’ostentazione di paradossali atteggiamenti liberali e rivoluzionari (era favorevole all’indipendentismo ungherese e simpatizzante delle idee socialiste), la ricerca compulsiva di gratificazioni nel sesso, nell’alcol, nell’oppio e – non ultima – la manifestazione di tendenze suicidarie. La relazione con la baronessina, favorita dagli intrighi di corte e alimentata dalla psicotica estremizzazione del binomio amore-morte, si conclude e – nel racconto di Frene – si riduce al ‘trattamento’ di due corpi: politici prima che fisici. Così «benché nella camera ardente si fosse cercato di occultare il corpo maciullato di Rudolf / e la sua testa fracassata irriconoscibile a causa del sangue» (p. 99), «all’erede al trono venne rasata, da morto, la barba sul mento / in barba ai precetti inerenti alla sacralità della persona reale / nell’immaginario collettivo doveva imprimersi // l’ovale di un volto innocente / momentaneamente deceduto» (p. 91). La causa della morte – oscillante tra le più varie e improbabili ipotesi – fu infine attribuita a «momentanea infermità mentale» (p. 93) in modo da limitare il danno d’immagine per la plurisecolare monarchia e poter procedere con le esequie solenni e la tumulazione nella Kapuzinergruft. Il cadavere della baronessina, invece, subì una manipolazione sconcertante, al punto di rivestirlo e farlo viaggiare seduto in carrozza con tanto di cappello piumato sulla testa, tra due incaricati, per non destare sospetti e voci incontrollabili, fino alla frettolosa sepoltura nella zona riservata ai suicidi del cimitero di Heiligenkreuz (si veda anche la nota a p. 120). Per ironia della sorte, i due colpi di pistola che uccidono questa coppia illegittima sembrano la grottesca anticipazione di quelli che toglieranno di mezzo il successivo erede al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando, con la moglie Sofia Chotek, a opera di Gavrilo Princip, determinando, come recita qualsiasi manuale di storia, la causa occasionale della Prima guerra mondiale e la successiva dissoluzione dell’impero austroungarico. Dopo l’elenco dei cuori degli Asburgo custoditi nella Cripta dei Cuori (Herzgruft), sorta di reliquiario laico rispetto alla Kapuzinergruft, la conclusione-refrain «nomi che non sono che nomi / nomi che non sono più niente», equipara queste illustri spoglie a quelle di qualsiasi altro carnefice o vittima della storia, come aveva già lapidariamente scritto uno dei poeti che Frene sente più affini dal punto di vista tematico, Giorgio Caproni: «Nessun tribunale. // Niente. // Assassino o innocente, / agli occhi di nessuno un cranio / varrà l’altro, come / varrà l’altro un sasso o un nome / perso fra l’erba» (Dies illa, da Il franco cacciatore, 1982).

Per concludere con questo libro che non conclude affatto ma fa balenare al lettore (che richiede indefesso) continui segnali istitutivi di relazioni tra testi e contesto, tramato com’è di un vertiginoso assemblage di citazioni – a ulteriore riprova di quanto la poesia si nutra sempre di altra poesia (e di altra prosa) – proprio il testo incipitario Introitus. Sestina funebre permette di evidenziare un altro dei riferimenti principali dell’esperienza di Frene e della ragione profonda di questo libro, cioè Andrea Zanzotto e il suo Galateo in Bosco (1978). Che il poeta di Pieve di Soligo sia stato il mentore-maieuta dell’autrice è – per sua stessa ammissione – cosa risaputa; qui si può aggiungere che quel libro zanzottiano è in certa misura uno degli ipotesti di Eredità ed Estinzione, dove prosegue un dialogo mai interrotto, fondato anche sulla comunanza delle coordinate spaziotemporali. Tanto sul Montello quanto nel territorio del Grappa si sono svolte fasi o azioni di guerra (nel primo conflitto e durante la Resistenza) che hanno lasciato tracce profonde nell’ambiente e nella memoria, individuale e collettiva. La «funebre leggenda»6 nella quale asseriva di essere cresciuto Zanzotto (nato nel 1921 e il cui padre Giovanni combattè sul Piave), sostanziata di racconti, toponimi modificati (Moriago della Battaglia, l’Isola dei Morti ecc.), lapidi, cippi, monumenti, ossari, è di fatto la stessa che, all’ombra del massiccio del Grappa, ha condizionato anche Frene, nipote di «Francesco, zappatore del 7° Alpini, IV Armata, poi Armata del Grappa» (p. 62). In Introitus – avverte l’autrice in Tecnica di sopravvivenza… da cui riprende il testo che qui ha titolo e sottotitolo esplicitanti i principali riferimenti: Sestina come canto funebre ai logoteti / Andrea ed Emilio / tra ossari e dichiarazioni, / detta sestina funebre – «si cita San Paolo, quello ancora cieco; si cita, poi, Sant’Agostino e la sua “canzone temporale”; si cita, infine, Leopardi, ma prima Foscolo. Questa poesia vuole essere una discesa agli Inferi fatta di orditi testuali estratti e digeriti da: ‘Rivolgersi agli ossari…’, di Andrea Zanzotto (da Il Galateo in bosco); Dichiarazione del soldato morto, di Emilio Villa (da Oramai); ‘le cose non viste come sarebbero…’ e In-estesa di Giovanna Frene (da Datità) – e qua e là dal poemetto Spostamento».7 In esergo a questo componimento è però la celeberrima ammissione eliotiana nel congedo di The Waste Land («These fragments I have shored against my ruins», che Frene traduce «su queste rovine non ho fondato che rovine») a indicarci un altro fondamentale ipotesto di Eredità ed Estinzione, a partire dalla concezione del libro per addizione di «soggetto e oggetto, presente e passato, realtà e mito, testo e testo».8 Autore carissimo a Frene (anche per i Four Quartets e il tipico procedere per affermazioni-negazioni o frasi circolari o paradossali: «Solo col tempo si conquista il tempo»; «Mondo non mondo, ma ciò che non è mondo»;9 «E quello che non sapete è la sola cosa che sapete / E ciò che avete è ciò che non avete / E dove siete è là dove non siete»10, ecc.), Eliot sembra l’effettivo modello profondo di un libro che – un secolo dopo la devastazione provocata dalla Prima guerra mondiale – procede nella medesima scia della percezione di una civiltà che frana o franando muta e si rinnova, tra catastrofi vissute o minacciate.

In Tecnica di sopravvivenza… l’autrice riservava a una lunga nota finale (Storia come allegoria) considerazioni che sarebbe stato forse il caso di riproporre anche in Eredità ed Estinzione, tanto sono chiare e rivelatrici, soprattutto per quanto concerne la percezione spiazzante dell’irrealtà di ciò che è accaduto e – come usa dire – consegnato alla storia: «La mia poesia si è diretta proprio lì, verso la Storia, perché è il luogo dove si esprime la massima presenza del nulla che ci assedia. Cos’è altro la Storia se non una costruzione, un immaginare uno scopo nella vita dell’intera umanità, anzi un credere che di questo scopo, o insieme di scopi, ci sia una tracciabilità precisa (fatti, personaggi, idee)? Certo, sembra che qualcosa sia accaduto, che le persone siano esistite, che alcune idee siano state scritte: ma è il credere che nella vita ci sia una qualche direzione, come dice Camus, che spinge alla fine l’uomo a costruire la Storia. Nessun fatto è mai esistito per come viene trasmesso, e ancor prima, nessun fatto, mi verrebbe da dire, è mai esistito. La dimensione dell’assurdo è avere raggiunto una coscienza tale che alla fine si ha anche sempre la sensazione in realtà di pattinare su una superficie, senza riuscire a penetrare alcunché, perché non c’è niente da penetrare» (p. 39). Qualcosa era successo, intitolava Buzzati uno dei suoi più angoscianti racconti (da Il crollo della Baliverna, 1954) e qualcosa continua sempre ad accadere, perché tutti gli anelli comunque tengono anche se sono fatalmente destinati a uscire dal nostro orizzonte spaziale e (senti)mentale: ogni eredità è estinzione.

Michele Bordin

 
 
 
 

1# Il titolo della sezione finale corrisponde a quello del penultimo libro dell’autrice (pubblicato da Arcipelago Itaca Edizioni, 2015), dal quale provengono anche altri testi ricollocati in Eredità ed Estinzione.

2# P. G. Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino, 1991, p. 208.

3# Non così nella prima versione della terza parte – intitolata Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità – in Tecnica di sopravvivenza, cit., pp. 20-21, dove non sono presenti le note.

4# A. Zanzotto, Tentativi di esperienze poetiche (Poetiche-lampo) (1987), ora in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1309-1319: 1318-1319.

5# K. Vonnegut, Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 164 e 194-195.

6# A. Zanzotto, Intervento [1981], in Id., Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, p. 1255.

7# G. Frene, Tecnica di sopravvivenza cit., p. 38.

8# A. Serpieri, Introduzione a T.S. Eliot, La terra desolata, Milano, Rizzoli, 19852, p. 10.

9# «Only through time time is conquered» (da Burnt Norton, II, v. 46); «World not world, but that which is not world» (ivi, III, v. 27)