L’uomo metafora vivente?

Nel 1980 Lakoff e Johnson coniarono un’affermazione metaforica che negli anni successivi divenne una formula magica: “La metafora è una forma del pensiero non solo del linguaggio”.

Tante le discussioni e le elaborazioni successive a cui non mi sottraggo neanch’io, enunciando una ipotesi: e se la metafora fosse una forma del pensiero?

Non solo il vocativo1, ma anche la metafora tradisce l’insufficienza della scissione operata dalla linguistica moderna. La metafora non è solo una figura retorica, ma rimanda anch’essa a una relazione tra nomi e cose che comporta un terzo elemento, un passaggio, la rivelazione di un vuoto – una memoria, un punto cieco che s’insinua – che sostituisce e costituisce i legami tra nomi e cose, li sospende e li sposta su un piano della coscienza in cui non è la lingua a parlare, bensì un’assenza.

D’altronde, la metafora è il tentativo del discorso di tornare alla parola, di tornare indietro, bustrofedicamente. È una specie di verso poetico all’interno del discorso, che spezza il discorso e fonda il ritmo. E crea il fuorviamento del senso, attualizzando la metamorfosi.

Il pensiero non mima questo procedimento? Non parte da quel vuoto metafisico, da quel nulla pullulante che evocando una forma successiva (il pensiero) informa una forma e le dà ritmo, movimento, tempo? Il pensiero (metafora e cioè trasporto del nulla nel momento in cui ne formalizza l’assenza prendendone il luogo) non rende possibile la relazione tra soggetto pensante e mondo, tra nomi e cose implicante un terzo elemento, un passaggio, la rivelazione di un vuoto – una memoria, un punto cieco che s’insinua – che sostituisce e costituisce i legami tra nomi e cose, li sospende e li sposta su un piano della coscienza in cui non è la lingua a parlare, bensì un’assenza, l’incompossibile del silenzio, forse la mancanza di quella collettiva e comune voce delle creature chiamate da una Coscienza che le attende, le protende, le unifica (forse le pretende e le tende)?

La metafora è la forma del pensiero in quanto trasferimento e trasposizione e pronunciamento di una mancanza ontologica, che riferisce di un vuoto dell’appello – a sua volta rimando a una eco di una Coscienza superiore, in cui la lingua scompare con i suoi fondamenti per far posto alla Evocazione.

Secondo Lakoff e Johnson la metafora è, prima che un fenomeno linguistico, un meccanismo cognitivo che consente di strutturare il sistema concettuale: pensiamo metaforicamente. Sono le nostre esperienze sensori-motorie quelle primarie che ci portano ad elaborare i concetti astratti, esperienze di tipo metaforico. Sperber & Wilson invece sostengono che le metafore non hanno uno statuto particolare ed osservano gli stessi principi di pertinenza delle altre attività di linguaggio. I ricercatori Radden e Koevecses assegnano pure alla metonimia una natura concettuale che sfrutta mappature configurazionali ammesse dal contesto culturale. Secondo Croft, la metonimia agisce come un ‘evidenziatore del dominio’, sottolinea un aspetto del referente (il produttore per il prodotto, la parte per il tutto, lo scrittore per l’opera).

La metafora (epiphora, il processo di trasferimento, il movimento che porta alla sostituzione) è uno degli elementi paradigmatici che derivano dagli archetipi delle formazioni strutturali e procedurali del vivente e dalle mutevoli leggi che nel corso del tempo hanno connesso le strutture con i loro processi attivi e con l’ambiente suscitando interazioni che hanno prodotto memoria, informazioni e necessità di archiviazione dei dati. La metafora sarebbe uno dei tanti aspetti che hanno a che vedere con matrici e codici precedenti il linguaggio. Lettura che chiaramente è più vicina alla lezione di Lakoff e Johnson, ma, a parte questa presa di posizione, quel che si vuole esprimere in questo breve saggio riguarda l’affermazione secondo cui l’uomo possa essere definito egli stesso metafora del vivente. Egli costituirebbe una coscienza consapevole della capacità di trasportare la memoria universale del DNA, il codice della vita che si eredita geneticamente e che si trasmette da una creatura a un’altra, così come le onde del mare trasferiscono l’equorea azzurra indeterminatezza dovunque.

Animale mimetico, l’uomo avvertirebbe la necessità di generare archivi delle scatole nere costituite dagli esseri viventi e non viventi, di trasmettere dati informativi e memorie, di contribuire a un ordinamento e a un’analisi degli sviluppi delle dinamiche che sono alla base di tali connessioni (attualmente mediante la gestione di big data informativi processati tramite algoritmi), esigenze che potrebbero essere definite come una proprietà che il genere umano avverte potentemente, un sesto senso attivato dalla dipendenza alla legge che obbliga e collega ogni creatura all’altra, nell’interdipendenza di tutte le componenti.

La potenza della figura retorica, sottolineata da Quintiliano, consiste nel creare circuiti di significato inattesi (inopinatum), ovvero nel trovare le corrispondenze, forse i corollari di una unitarietà fondativa inscritta nel vivente, in ogni vivente, in ogni roccia o minerale: i linguaggi sono segni di codici e matrici universali naturali e le figure retoriche ne introietterebbero e interpreterebbero gli archetipi, ne avrebbero assimilato e riprodurrebbero il senso del come queste forme originarie si siano tradotte in lingua.

L’uso della metafora è prerogativa non solo della lingua della comunicazione quotidiana, ma anche e soprattutto della poesia e della sua logica, laddove la lingua rincuna in se stessa, finalmente libera dall’uso funzionale, pronta a tornare ad essere voce, pronunzia, pura sonorità, trasgressione e alterità del silenzio, dato minerale prima che vivente, unità archetipale.

La metafora assume una rilevanza in quanto evidenza specifica della lingua. Probabilmente la lingua, che nasce come lalangue, come lallazione che si fa balbettio dei sensi, nella metafora ritrova un collegamento con questa sua primaria funzione. La lingua restituisce il fondamento dell’umano, se ne assume la responsabilità formale e comunicazionale, il ciò che lo dice, la voce che lo parla e lo recita, lo narra, in vista di un vivere-per, di un senso, e ne manifesta la verità di natura, verità resa evidente proprio dalla metafora che, grazie alla sua qualità di vettore, segna l’abbandono della fissità in funzione del movimento animato, ed illumina sulle analogie nascoste, sulle infinite coincidenze di ogni atomo e creatura con la vita, con la natura.

La metafora mette in luce anche il fallimento della lingua, di ogni linguaggio, del segno che sta sempre al posto di un’altra cosa. Cosa sono io se per conoscermi devo trasferirmi in altro? E per mancarmi sempre, tornando ancora a me stesso? Non è il segno di un fallimento divino o di un suo obbligare ogni essere all’umiltà, alla capacità di secretare l’altro in sé, di compiere ogni volta, nel linguaggio, l’atto (forse il dovere) della custodia? Angelo ribelle, l’uomo?

È nella natura dell’uomo il di lui rendersi identico taluna volta all’ombra, talaltra alla luce, al fine di oltrepassare i confini propri, in una metamorfosi continua, sostanza fluente della natura naturans. La metafora è dunque svelatrice della Metamorfosi, verità che avvolge tutta la vita. È anche ciò che schiude l’uomo verso l’alterità di se stesso, verso il post-umano, il disumano, l’oltreumano, il superuomo; per parodiare Nietzsche, l’uomo non conosce se stesso, ma la metafora di se stesso, o meglio, il modo in cui si disappropria di sé per essere altro, ed è in questo trasporto che si palesa la verità, nel destino di essere metafora del mondo, di abbandonarsi alla metamorfosi che opera in lui il passaggio dal corpo allo spirito, dall’ombra alla luce, dall’essere al nulla e viceversa. Il polimorfismo – l’animalità, il movimento verso l’oltre – è ciò che fonda il senso del linguaggio, il senso dell’uomo, parlato o balbettato dalla poesia.

L’uomo è rivelazione continua, è un rivelarsi continuo a se stesso e all’ordine del mondo, è metafora vivente e metamorfotica, quando appunto si identifica con ciò che lo disappropria di sé e gli prospetta l’inopinabile, l’invisibile, l’inaudito, l’impercepito. La metafora ridona all’uomo la capacità di vedere oltre, di sentire e percepire oltre, e cioè di nascondersi e di palesarsi in altro, di diventare altro, lasciando dietro di sé la scia dell’ombra o della luce, la scia dell’umano o del disumano, il profumo della sua debolezza o della sua forza, concorrendo a formare la sua capacità di essere altro da sé, di entrare in un’altra dimensione, di rinunciare alle sue prerogative per rendersi nulla a sé, vuoto di sé e trascendersi, o per lo meno spostarsi, per un istante, oltre ciò che lo limita e lo tiene avvinto all’oggettività, all’umanità, all’ovvio, alla ripetizione dell’identico.

La poesia consiste nella qualità di rendere evidente questo movimento, di richiamare a sé gli opposti per farli coincidere ed innescarne la miccia, dunque non solo atto di un trasporto, di uno spostamento, ma anche e soprattutto atto di soppressione dei limiti e delle diversità. Proprio in quanto metafora, la poesia è egualitaria, è metafisica degli opposti, è il movimento che oppone la coincidenza al mistero, che ribalta il mistero nella coincidenza degli opposti, liberando le forze rimaste legate da un potere che però non resiste alla vibratilità, alla mimeticità poetica. Con il suo acume, uno dei più grandi e acuti scrittori mai vissuti, Marcel Proust, sosteneva che la bellezza di una cosa si conosceva solo in un’altra:

“La natura stessa non mi aveva forse messo, da questo punto di vista, sulla strada dell’arte, non era lei stessa inizio d’arte, lei che mi aveva consentito di conoscere, spesso molto tempo dopo, la bellezza di una cosa solo in un’altra cosa, il meriggio a Combray nel rumore delle sue campane, le mattinate di Doncières nei singulti del nostro calorifero ad acqua?”.2

La possibilità che offre la metafora poetica di trasportarsi fino a coincidere nell’altro, è la dimensione della bellezza, del godimento effimero e qualitativo di un passaggio da una condizione di normalità (della conformità a se stessi) a un’altra in cui la nuova condizione viene avvertita nella sua radicale originarietà, nella sua prima condizione finalmente libera di sé e approdata nella gloria della trascendenza metaforica (che lo scrittore riconduce al concetto di “bellezza”). La bellezza segna il passaggio da sé ad altro, è il riconoscimento di tale trapasso indolore, che anzi preserva dal dolore, un passaggio effimero, forse, o volutamente finto.

C’è sicuramente, come osserva Francois Julien1, un oscuramento della prima condizione, che però viene recuperata in un altro mondo; tutto questo probabilmente avviene continuamente, in quella metamorfosi continua che regna nella vita e nella natura; la realtà, ovvero la condizione abitudinaria in cui l’uomo si muove, impedisce, in genere, di approfittare delle possibilità infinite che la vita offre, impossibili da cogliere per chi non riesce a fare il vuoto dentro di sé, e a percepire la poesia parlante di ogni creatura, di ogni essere vivente e non vivente.

La raccomandazione heideggeriana, di evitare di rinchiudersi nella metafisica occidentale del linguaggio, è assolta proprio dalla metafora in quanto coincidenza tra un in sé e il mondo, rappresentazione dell’infinita differenza come base stessa della coscienza.

La metafisica creata dalla metafora è il sapersi indefinitamente ignoti a se stessi, sebbene pur sempre in procinto di scoprire qualcosa di nuovo di sé grazie all’altro. Conoscere di se stesso ogni giorno qualcosa in più è forse allontanarsi in quella parte che era sconosciuta, per andare oltre, per mutare?

Si è metamorfotici, in continua negazione di se stessi per restare legati al palo di un sé che è nient’altro che memoria raggrumata, del già avvenuto, del già trascorso: di un sé che stenta a essere, anzi che non è mai, ma di cui è garantita per sempre l’identità, quella dell’io, di un inganno del passato di cui l’individuo non riesce a liberarsi e che però fonda la base di tutte le mutazioni che avvengono, l’una dopo l’altra, e che si depositano in quell’io ingessandone la finzione e aumentandone la dimensione, creando un’identità, una coincidenza con un sé pietrificata e inossidabile, una stalattite a cui ci si sorregge per chiudere gli occhi sulla realtà, prima che la sua vertigine, quella di un inaudito inguardabile e inconcepibile, mini l’equilibrio dell’individuo, trascinandolo nell’abisso, da cui non saprebbe più cavarsi fuori ma che impedisce di mutare, di metamorfosare, di riconoscersi nell’altro: la stalattite è ciò che la metafora corrode.

Nell’attuale società, in cui predomina l’informatizzazione globale, acquisisce sempre più peso la stalattite dell’intelligenza artificiale, resa più funzionale da una meccanica priva di orientamento e di fini, non sottoposta al destino dell’estinzione, quindi testimone affidabile, autentica e durevole, della propria ed altrui memoria.

Una domanda: sarà capace l’intelligenza artificiale di creare metafore, fino a diventare essa stessa metafora dell’artificiale?

Un’ultima considerazione. Se la lingua (ogni linguaggio) è una forma di adesione al mondo, se i fiori, le spighe biondeggianti, la tremula brezza fra le fronde dell’olivo, se le trapuntate stelle con il loro scintillio lontano e irraggiungibile evocano il parlante, è per essere chiamate ma soprattutto per avvicinare al loro messaggio di felicità piena, di gioia, di spontaneità immediata, di adesione incontrollata alla vita, dall’altra parte, invece, la metafora traduce la tragicità di tutto questo, perché ogni elemento si trasforma, abbandona il proprio stato per entrare in un’altra dimensione, per negarsi e distruggere sé e annichilirsi, e permettere ad altre forme di prendere posto nel pianeta e partecipare alla continua metamorfosi del mondo. La felicità naturale non è solo tragica, annuncia anche una necessità di trascendenza, di superamento dei limiti angusti propri di ciascuna creatura o pietra o minerale; la verità è nascosta nella capacità di amare, di accogliere la vicenda di ogni creatura appropriandosene, facendo di sé il luogo di ogni passaggio, accettando la legge unica della natura, l’energia che ama se stessa e la diffonde ovunque, seminando vita, raccogliendo morte, perpetuando se stessa come infinita, eterna generatrice e matrice di cui i frattali sono la metafora più calzante. Gli uomini tutt’insieme non sono forse dei frattali che ripetono la loro forma?

 
 
 
 
In copertina: Wormhole, 2012-13 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 41.5 x 34.5 cm Edition of 3 + 2 A.P. + 1 P.P. Courtesy of the artist, private collection.
Fonte: doppiozero.com/disorientamento-illusioni-e-paradossi

 
 

1Come rileva Agamben ne La voce umana, Macerata, Quodlibet, 2023.

2François Julien, L’inaudito. All’inizio della vita vera, Milano, Feltrinelli, 2021.