Poesia di minoranze. Un rapporto (parziale) dall’esplosione dei Centri

Dal centro al rizoma

Nel racconto di Philip K. Dick, Rapporto di minoranza (1956), da cui Spielberg ha tratto l’omonimo film con Tom Cruise di una ventina d’anni fa, il sistema precognitivo demandato alle visioni di tre umanoidi si fonda su una legge matematica incontrovertibile: «L’esistenza di una maggioranza implica logicamente una minoranza corrispondente».1 Sebbene il racconto e, più o meno fedelmente, il film sviluppino l’incredibile anomalia – quell’unico e imprevedibile caso – che inficia tale rapporto, possiamo sommariamente prendere per buono il principio logico secondo il quale al riconoscimento di una minoranza soggiace una realtà dominante, diciamo pure di potere, preliminare all’affermazione e alla condivisione di una norma. La natura della questione è, prima di tutto, sociale, ovvero politica nel senso di una comunità costituita in polis.

Non inventiamo certo l’acqua calda scrivendo che l’identità collettiva di un gruppo di persone è tale allorché forgia e al tempo stesso è forgiata da singoli elementi quali la lingua, la memoria, la narrazione del mondo, l’economia, la religione che divengono oggetto di condivisione e trasmissione. All’interno di una comunità chi prende la parola è sempre un Noi – per comodità potremmo anche chiamare Il Centro – che parlando riconosce e stabilisce i confini del proprio parlare. Fuori dal Noi/Centro, uno spazio amorfo sovente caratterizzato da afasia, balbuzie, glossolalìa, sindromi varie di Babele, ecc., vengono relegati Gli Altri, cioè la minoranza che costituisce – in antitesi al Centro – i margini, la periferia di questo modello sociale. Si ritrovano analogie interessanti, a questo proposito, nella psicanalisi del coté freudiano-lacaniano secondo cui la nevrosi – qui intesa come scarto, deviazione dalla norma – sarebbe un deragliare “fuori” dal discorso, ovvero dal linguaggio istituzionalmente istituito. E tuttavia va segnalato, a rigor di cronaca, che fuoriuscendo dalla norma verbale del Centro/Potere non si va incontro al silenzio, ma al ronzio/brusio di una pluralità indistinta di voci del mondo che un poeta dello spessore di Pasolini, per citare un esempio tra i più noti, aveva già rappresentato come esistenza corale (il proletariato delle borgate romane) in lotta per emergere, per essere ascoltata in quanto parola ‘altra’ e divergente dal canone.2

Negli ultimi decenni, la capillarità della diffusione del medium digitale ha reso obsoleta la tradizionale dialettica Centro/Periferia. Lo appuriamo tutti i giorni: i nuovi processi culturali, all’epoca della globalizzazione di Internet, presentano una dinamica che svincola le categorie di spazio e di tempo dall’assoluto della comprensione kantiana. Come scrive Byung-Chul Han, «non sono i confini bensì i link e le connessioni a organizzare l’iperspazio culturale».3 Il paradigma di un ordine dicotomico del mondo che funzionava per distinzione tra Centro e Periferia, Nord e Sud, Alto e Basso non ha più ragione di esistere – salvo l’unica eccezione che davvero conta per Sua Maestà Il Capitalismo: Chi ha troppo e Chi ha troppo poco –, dal momento che l’ibridazione, lo sconfinamento, l’accessibilità istantanea alle informazioni, sorrette da una distorta idea di democraticismo, sono i tratti salienti che ritroviamo all’emergere di nuove identità culturali. Anzi, nel suo upgrade contemporaneo l’idea stessa di cultura si tramuta in una «iper-cultura» (ancora Han), il nuovo modello di comprensione del mondo è quindi essenzialmente a-dialettico e presuppone un dinamismo più incline alla definizione di rizoma postulata da Deleuze-Guattari:

Un rizoma, come stelo sotterraneo, si distingue assolutamente dalle radici e dalle radicelle. I bulbi, i tuberi sono rizomi. Le piante a radice o radicella possono essere rizomorfe sotto altri aspetti. […] Qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso a qualsiasi altro e deve esserlo. È molto differente dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine.4

Deflagrato il principio della gerarchia,5 ha ancora senso parlare di maggioranze e minoranze? Ma soprattutto, rispetto a questo scenario, la domanda che ci sta più a cuore è: e la poesia?

 

E la poesia? Una questione di canone, e di barbari

La poesia, in quanto modalità di interazione dell’umano, non è estranea a quanto accade nel mondo. E in quanto prodotto storico è del mondo, nel mondo e per il mondo. Rispetto alla relazione di potere che incorona una maggioranza escludendo tutto ciò che ad essa si pone come estraneo, la parola poetica assume un atteggiamento doppio, schizofrenico.

Nella Grecia antica il senso identitario si caratterizzava per uno stare dentro i confini della lingua. I barbari, letteralmente, erano stigmatizzati a causa di una difficoltà oggettiva della fonazione. Così il logos della polis diventava legge fondata su un discrimine e una discriminazione. Nell’altro versante delle nostre radici occidentali, quello giudaico prima ancora che cristiano, la comunità che si salda attorno alla Torah è una collettività che prima di tutto ascolta la parola poetica di un Dio unico e universale. Il primo caso storicamente acclarato in cui una minoranza – anzi, a dire il vero in questo caso una singolarità – spazza via un nugolo di rivali divini! Il segno d’elezione di questo popolo, la circoncisione nella carne, non è altro che metonimia di una parola che incide nella vita individuale e pubblica. L’inizio del salmo 78 è un promemoria poetico molto efficace.

La parola poetica si conforma quindi a un modo di vedere e interpretare il mondo che fonda una tradizione, la quale è contemporaneamente, alla stregua del famoso gatto di Schrödinger, un tradimento della parola ma anche una consegna della stessa alle generazioni future. Se vogliamo, tradizione è un atto d’amore («Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore.»6), luogo di riproduzione all’infinito del desiderio e della sua origine.

Ciò non toglie che nei modi della trasmissione emerga, in maniera anche dilemmatica, la questione del canone. E parlare di canone – in poesia non meno che in ambito religioso – è sempre un pericolo, poiché non si può non vedere, al di là dello specchio che riflette le costruzioni ideologiche dei vincitori della Storia, le menzogne, le deviazioni, le violenze che vi sono sottese. La stessa istituzione di un punto che da una parte irradia modelli di riferimento e dall’altra tende a convogliare verso di sé tutte le tensioni e le intenzioni dell’agire umano comporta la sclerosi di un canone, cioè di un discorso che esclude a priori le esperienze di divergenza rispetto alla norma definita.

Non senza trarne utili insegnamenti a riguardo abbiamo letto Verga, e da estimatori del suo “ciclo dei vinti” sappiamo che tradizione è altresì il luogo dove la cosiddetta legge di maggioranza mette in atto la barbarie ai danni di quanti restano privati del diritto-possibilità di parola (i barbari). È pur vero, però, che dal margine viene l’inciampo linguistico che genera un cortocircuito nelle comunicazioni della nostra specie. La poesia inceppa la lingua dell’ordinario, dell’ordine costituitosi come monolitico linguaggio convenzionale, “normale” e normoriferito, e così facendo ripristina la verità di minoranza che va a ricomporre la frattura originaria.

È una panoramica, questa, certamente più mossa dell’immagine cristallizzata che si diffonde dai luoghi di potere. A dispetto degli scenari della globalizzazione di cui facciamo esperienza quotidianamente, il dire della poesia, anzi il suo fare conserva una carica sovversiva di non allineamento, di non adeguamento alla logica dominante – come potrebbe essere quella dell’informazione7 – che non deve essere minimizzata. E non parliamo di potenziale di resistenza o, horribile dictu, di resilienza. La poesia c’è, esiste come fatto della cultura umana, come sorgente a cui attingere in ogni momento storico, e le sue acque – non per forza chiare e fresche – confluiscono in quello stesso mare che cerchiamo, seppur molto faticosamente, di navigare forti dei nostri devices.

In fondo la poesia, come ci insegnano le avventure di Odisseo, è un fatto di migrazioni. Uno straniero che torna a casa, a un centro che nel frattempo è diventato meta e non più luogo di partenza.

Pietro Russo

 
 
 
 
 
 

1 Philip K. Dick, Rapporto di minoranza, trad. it. di P. Prezzavento, in Id., I guardiani del destino e altri racconti, Fanucci, Roma, 2011, p. 166.

2 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in Id., Le ceneri di Gramsci, in Tutte le poesie, tomo I (d’ora in poi TP 1), Mondadori (“I meridiani”), Milano, 2003, p. 826: «È un brusio la vita, e questi persi / in essa, la perdono serenamente, / se il cuore ne hanno pieno».

3 Byung-Chul Han, Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, trad. it. di S. Aglan-Buttazzi, nottetempo, Milano, 2023 [2005], p. 21.

4 Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 38-9.

5 Cfr. Charles Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari, 2011 [1991], in particolare pp. 37-64.

6 P. P. Pasolini, Poesie mondane, in Id., Poesia in forma di rosa, in TP 1, p. 1099.

7 Cfr. Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.