Dialogo con Giancarlo Pontiggia

Giancarlo Pontiggia nasce a Milano nel 1952, ha pubblicato le raccolte poetiche Con parole remote (Guanda, 1998; nuova edizione Vallecchi, 2024), Bosco del tempo (Guanda, 2005), Il moto delle cose (Mondadori, 2017), La materia del contendere (Garzanti, 2025, finalista al Premio Strega Poesia 2025). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nem, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Contro il romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Lo stadio di Nemea (Moretti&Vitali, 2013), Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014), Nuovi dialoghi sulla poesia (Amos, 2022), Origine (Vallecchi, 2022). Traduce dal francese e dalle lingue classiche.

 
 

Alessandro Corbetta: La migliore poesia, a cui la sua opera senz’altro appartiene, non è fatta di giustapposizioni o accostamenti casuali e, dunque, una nuova raccolta diviene sempre tassello che, posto accanto a quelli precedenti, consente al lettore di progredire nella scoperta del quadro di insieme della visione di un autore. Le chiedo, a riguardo: come si colloca La materia del contendere (Garzanti, 2025) rispetto alla sua produzione precedente? Quali elementi di continuità e quali, invece, di contrapposizione o differenza in riferimento soprattutto al tema dello spazio, per lei così centrale?

Giancarlo Pontiggia: Dei quattro libri che ho scritto finora, questo è forse il più spoglio e meditativo, anche se fa costantemente appello al potere delle immagini, che sono poi – almeno dal mio punto di vista – l’essenza del poetico, perché aprono all’infinità del dire.

Al centro del libro è l’uomo: l’uomo che tanto ci inquieta, con il suo strano impasto di viscere e ragione, la sua inquietudine costitutiva, che la modernità ha sorprendentemente esasperato. Un uomo che viene da lontano, dalle grotte di Lascaux, dal Pleistocene, dalle infanzie dei popoli, che può incarnarsi in figure storiche come Marco Aurelio e Giuliano, o filtrare dal legno di una porta, confondersi con il crepitio di un fuoco, emergere dalla materia fluttuante dei sogni, ridursi all’essenziale di una voce.

E questo è anche un libro di voci. Voci che si mescolano con i suoni della natura, con gli oggetti del nostro mondo quotidiano: un secchio, una pietra, una brocca che cade e miracolosamente si ricompone, una stoffa, una scodella, frammenti di vita vissuta. E può capitare che si parli del bene e del male, del rapporto tra natura e storia, e ancora di temi già al centro delle raccolte precedenti, ma che qui sembrano semplificarsi, toccare il cuore dell’essenziale: il tempo, le origini, la vita sognata o solo immaginata, che la memoria riscrive giorno dopo giorno, il rapporto con le ombre, il filo lungo delle generazioni che abitano in noi, la contesa con la morte.

Inevitabile, entro questa prospettiva, la rinuncia a una costruzione architettonica del libro, non più articolato in sezioni dotate ciascuna di una propria autonomia espressiva. La poetica dello spazio che informava le raccolte precedenti si è sciolta in un continuum circolare di suoni, voci, pensieri, immagini.

 

A.C.: Il titolo, La materia del contendere appunto, denota una chiara matrice filosofica. Ad essere poi protagonista del volume è la storia, quella dell’uomo e di ogni uomo, osservata da punti di vista diversi e anche piuttosto lontani gli uni dagli altri. Come si coniugano filosofia e storia in questa sua raccolta? In che rapporto si pongono rispetto alla poesia? Resta, la loro azione, finalizzata alla comprensione di una qualche forma di verità mai però pienamente raggiungibile e quindi fonte di inquietudine costante per il soggetto?

G.P.: Il libro è tutto raccolto tra due epigrafi: ha inizio con Eraclito l’oscuro, e finisce nella luce di un canestro bucolico. Due immagini in contrasto, che esprimono due condizioni del nostro animo: la legge imperiosa del mutamento e la nostalgia di un luogo nascosto, incorruttibile, che si sottragga al perenne fluire delle cose.

Dopo Hölderlin, dopo Leopardi, dopo Celan siamo entrati lentamente, quasi inavvertitamente, in uno spazio che sta sul confine tra poesia e filosofia, mi verrebbe da dire ai confini del dire stesso: uno spazio in cui la parola vibra di tutto ciò che è l’invisibile e il nascosto delle cose del mondo. È come se la parola, da più di due secoli, si muovesse verso il semplice, il primo, l’originario delle nostre esperienze e delle nostre percezioni. E lo facesse recuperando il dinamismo intuitivo e immaginoso dei primi poeti-filosofi.

La contesa alla quale si allude nel titolo deve certo qualcosa al pensiero eracliteo, che è un pensiero che si sviluppa per salti, capace di attingere al fondo scuro del mondo senza abdicare alle forze della luce. E gran parte del libro si muove entro questa dialettica di visibile e invisibile, necessità e miracolo. Penso a una poesia come Mezzo futuro ci cade addosso, che nasce dall’ascolto di uno straordinario brano dell’ultimo Liszt intitolato La lugubre gondola: qui le immagini di morte che si susseguono sono contrastate dal verso finale, dov’è «una foglia che trema, si stacca, verdeggia», invertendo la freccia del tempo. La morte è solo un «mezzo futuro»: nell’altro è l’inaudita speranza di un’altra vita a imporsi, nella sua sostanza indimostrabile e utopica. Non era in me alcuna ambizione di dare risposte argomentate alle grandi questioni sollevate nel corso dei millenni dal pensiero umano: semmai di far sentire quanto contraddittorio, impervio, glorioso, oscillante sia l’animo umano; e come la vicenda stessa del nostro pensiero sia una vicenda di grandi visioni in perenne contesa.

 

A.C.: L’impianto del libro, strettamente legato al verso, mostra tuttavia alcune incursioni di prosa, tendenza comune a molti autori e autrici di poesia nell’ultimo periodo. Che senso assumono per lei queste forme, seppur eccezionali, di deroga rispetto al tradizionale impianto lirico? Con quale scopo ha deciso di avvalersene?

G.P.: Credo sia necessario fare chiarezza su questo tema, e richiamare qualche dato storico. Il primo, indiscutibile, è che il verso nel corso del secondo Novecento si è mosso verso una dimensione lessicalmente e sintatticamente più piana, allontanandosi da certe pose sublimi ed ermetizzanti che erano state della poesia italiana degli anni Trenta e Quaranta. Ed è stato anche un bene, perché ha liberato la poesia dalla retorica e dalla vaghezza, a volte pomposa, del tardo simbolismo europeo. Il poeta che ha meglio rappresentato questo trapasso è stato Luzi, per il quale la prosasticità non è mai stata un modo di cancellare l’altezza del pensiero poetico, semmai di restituirlo a una nuova forma di essenzialità e di interiorità. Altro sarà invece l’uso teorico e ideologico del prosastico come strumento di abbassamento della tensione lirica e concettuale, di quel pathos e di quell’energia drammatica di cui la poesia ha fatalmente bisogno. In ogni caso, penso che le incursioni della prosa, in un libro di poesia, dovrebbero costituire l’eccezione, non la regola, ed essere sempre dettate da motivi di ordine espressivo, da una necessità che viene dall’intimo del nostro sentire e del nostro pensare. Anche perché un esercizio di prosa continuata impedisce quello che è forse il procedimento espressivo più intenso di cui il poeta possa disporre, e cioè l’andare a capo. Parlo solo per me, naturalmente, ma credo che un po’ tutto questo mio libro si muova nella direzione di un continuo confronto tra versi lunghi e versi che all’improvviso s’impennano, un po’ come la fiamma che volge verso l’alto. Come se la materia lunga e prosastica di un verso acquistasse senso proprio nel suo urtare contro la brevità folgorante e verticale di un’improvvisa immagine, dandole più rilievo.

 

A.C.: La poesia Dal Pleistocene (p.68) potrebbe essere considerata come testo esemplare del libro, dal momento che qui si concretizza una riflessione sul senso più profondo dell’esistenza umana e sulle contraddizioni che la caratterizzano?

G.P.: C’è stato un momento in cui ho pensato La materia del contendere come un film, del quale ogni poesia avrebbe dovuto rappresentare una sequenza. Anche perché questo, ancor più dei libri precedenti, è un libro di immagini: immagini che non hanno pretese allegoriche o simboliche, ma s’impongono per la loro pura energia vitale, come quelle del ranocchio al suo primo salto, o dell’ospite che sogna, o del fuoco che arde. E mi sono posto la questione – così decisiva nel cinema – del montaggio. Con quale poesia avrei potuto iniziare? La scelta, in quel momento, si è come naturalmente concentrata proprio sul testo che lei ha appena citato, dove protagonista è uno che «scende dal Pleistocene», e precisamente dopo l’ultima grande glaciazione che ha colpito la terra, per allungarsi «tra le piogge del sogno verso la Storia». Una storia di cui non sa se debba inorgoglirsi, un po’ come tutti noi, quando poniamo lo sguardo sui fatti che riguardano lo strano destino della nostra specie. E qui dovrei aggiungere che la poesia, nella sistemazione definitiva del libro, è andata a collocarsi appena dopo Un mondo nuovo, che è una rappresentazione infera della storia che forse ci attende: da un futuro remoto a un passato più che remoto. Il libro si muove un po’ così, per accostamenti – spesso contrastanti – che si sono imposti lentamente, come in una materia in continuo movimento.

 

A.C.: La poesia Un basolo, sogna (p. 28), una delle più significative di questa sua opera, sposta il punto di osservazione dentro una pietra di origine eruttiva, con la quale l’io lirico pare identificarsi. Da dove nasce, anche letterariamente, questa riuscitissima idea? L’atto di porre il soggetto in un soggetto altro da sé potrebbe essere letto come tentativo di costruire un dialogo più autentico con l’altro, qualsiasi cosa questo iperonimo comprenda?

G.P.: Sì, credo che La materia del contendere sia un libro di voci che si incalzano e si inseguono, come in una sorta di contrappunto. Voci, ma anche suoni, come quello della pioggia di Un secchio. E molte di queste voci e di questi suoni sembrano uscire da un qualche interstizio di mondo nascosto, più vulnerabile e più disarmato, forse, rispetto al tradizionale io lirico. La pietra della via Appia cui consegno l’onere di trarre un giudizio complessivo sulla storia del mondo, è una che ne ha viste di tutti i colori: ma dalla sua prospettiva, che è dal basso, gli zoccoli dei cavalli sembrano fare più impressione dei legionari che li cavalcano e delle sentenze di Appio Claudio Cieco, cui si deve la fondazione stessa della via. E alla fine l’immagine di un passero che arranca con la sua ala rotta finisce per diventare il vero emblema del dolore del mondo. «Non c’è storia, qui, solo verità», dice il basolo, prima di cedere la sua voce alla poesia successiva, quella intitolata Fossile, dove l’immagine del vivere è tutta consegnata a un folto di anatre «che starnazzano, che dicono / “ci sono”». Inevitabilmente la storia dell’uomo, che è la materia prima di questo libro, affonda in una storia ben più grande, che era prima di noi, e sarà anche dopo.