Dialogo con Beatrice Magoga (Esordi 2023)

Beatrice Magoga è nata a Motta di Livenza nel 1999. Attualmente studia Italianistica all’Università di Bologna e Violino nel Conservatorio della stessa città. Collabora con Lo Spazio Letterario. La sua opera Strumentario è pubblicata in Esordi 2023 (Pordenonelegge), insieme alle sillogi di Silvia Atzori e Alessandro Farris (il suo dialogo QUI).

 
 

Tommaso Di DioBuongiorno Beatrice. Ho appena finito di rileggere la tua silloge d’esordio, dal titolo Strumentario. È un titolo dal significato sfuggente: risuona in questa parola sia la freddezza chirurgica che il calore della musica. Ricordo che ne avevamo già parlato durante le settimane di dialogo in vista della pubblicazione dei tuoi testi nel progetto Esordi. Alla fine della lettura dei tuoi testi, rimango ancora indeciso – ed è un bene – se nel titolo alludi a un’orchestra, con tutti i suoi suoni possibili, dall’alto al basso, oppure a una sala chirurgica in cui la vita viene operata, aperta, guardata nelle sue fisiche interiorità. Come sei arrivata alla scrittura della poesia? In che modo questo titolo rappresenta il tuo lavoro?

Beatrice Magoga – Durante l’infanzia e la prima adolescenza, la scrittura è soprattutto stata per me un evento raro, sporadico, quasi si trattasse di un territorio impedito a cui io stessa (per ragioni legate a trascorsi familiari) mi proibivo di accedere. Per diversi anni ho preferito darmi alla musica e al disegno, e solo più tardi, nel periodo del liceo, ho davvero riscoperto il valore della parola, una qualche sua vocazione all’analisi e all’introspezione che poteva acuirsi, impennarsi, nella precisione maniacale del verso. Da quel momento in poi, però, il percorso è stato tutt’altro che lineare: in un continuo andirivieni di abiure, tradimenti, per propensione ora a un’arte ora a un’altra, e letture attente e appassionate, era come se dovessi scontrarmi con me stessa per concedermi il diritto alla parola. Ecco, credo che Strumentario rappresenti il primo tentativo – parziale, incompleto, su cui c’è ancora molto da lavorare – di mettere in scena questo rapporto agonico con la scrittura e con certe mie inclinazioni e “destini” (volontà, fantasie, eredità fisiologiche e psichiche) che ho sempre rinnegato e che da tempo premono per venire a galla.

Il titolo, come hai ben notato, allude alla perizia chirurgica con cui si cerca di arrivare all’osso di un disagio, sezionandolo in ognuna delle sue parti; ma anche all’andamento formulare, cadenzato (e, sì, in questo senso, “musicale”) dei versi, e alla ripetizione seriale dei medesimi automatismi di comportamento e di pensiero. Insomma, Strumentario vuole essere un repertorio variegato di ferri, attrezzi, casse di risonanza, e gesti che hanno tutta la brevità di uno scatto violento.

 

T.D.DNella tua scrittura ciò che mi ha colpito fin da subito è una straniata compresenza di teatralità e pudore. Da un lato versi come «Quella deficienza forse insanabile nell’immergersi/ un po’ più dentro alla baldoria del mondo la porto a spasso» (p. 69), che sembrano scritti per essere recitati a alta voce, davanti a un pubblico di fantasmi, e altri, invece, che sembrano nascere in un sussurro, tra te e te, in una circolazione segreta: «Penso quindi agli anni di schiavitù al digiuno,/ al guinzaglio sul ventre piatto –/ una convulsione involontaria per saper guarire.» (p. 91). C’è anche qualcosa di sguaiato, di fuori chiave («Cado nella porcata dell’ingordo», p. 72), eppure sempre convive nella tua scrittura con un aspetto più composto e misurato, che dispiega una logica spietata su sé stessi: «Doversi intasare per porre rimedio alla perdita» (p. 77). Da dove viene questa compresenza di elementi all’apparenza opposti? Riconosci in questa dimensione alcuni maestri e maestre di stile che ti hanno aiutato a trasformarla in espressione?

B.M. – La contraddizione di cui parli è, credo, di natura psichica. La difficoltà nel gestire emotivamente un disagio, soprattutto se ben radicato nella propria storia, può condurre a una reazione estrema di difesa o di compensazione di una mancanza. Nei testi di Strumentario, viene adottato con insistenza sempre lo stesso stratagemma: l’iper-esposizione di un sé che è, in verità, estremamente labile, sbiadito, se non addirittura inesistente. È in sostanza un modo disperato di illudere sé stessi e gli altri (in carne e ossa o come proiezioni della mente) della propria presenza. Eppure, quando si rianima la consapevolezza di quale sia il proprio stato e delle possibili cause della sua origine, i toni si fanno più dimessi, e l’istrionismo lascia spazio alla realtà amara del trauma. Qui subentra il pudore, o, piuttosto, una sorta di autocommiserazione – e con questo la reticenza, il raccoglimento, forse un po’ di grazia.

Tra le letture che ho più amato e che mi hanno insegnato ad appropriarmi, a mio modo, di questo contrasto, spiccano di sicuro Grünbein, per quei libri – perlopiù giovanili – in cui sottigliezza di pensiero e sarcasmo viscerale convivono senza attenuare lo scarto tra i toni, e poi Jelinek, e Rosselli, Sexton, Valduga, nelle quali non mancano spietatezza o disinvoltura teatrale del lessico e dei modi dell’espressione, e una certa bizzarria delle immagini, sempre accompagnate dai momenti elegiaci della confessione.

 

T.D.D.È inevitabile, leggendo i tuoi testi, che si affronti la tematica del corpo. Il corpo è presentissimo ovunque e declinato in molti modi. C’è il corpo delle cose che mangi e c’è il corpo che mangia, il corpo come ostacolo, come nemico per giunta, come presenza aliena e indipendente da una mente che continuamente lo abita e lo tormenta tormentandosi e trascrivendosi. Insomma c’è un corpo che si presume reale e un corpo immaginato. Dappertutto poi mi ha colpito questa presenza lessicale del cibo in prossimità con termini astratti: parole come “muesli”, “frollini”, “fette biscottate” e “dolcetti di San Nicola” convivono con “automatismo”, “perdono”, “divorazione”, “emancipazione”, “coscienza”. Entra in gioco insomma una terza dimensione del corpo, ovvero la corporeità del linguaggio. In che modo si relaziona questa con le altre due?

B.M. – Come ben dici, si percepisce un forte iato tra realtà concreta degli oggetti, del cibo, e pensiero, tanto che la prima viene ridotta in particelle grezze, elementari e isolate, di sola materia, come se si trattasse di un’alterità assoluta priva di contesto, mentre il secondo si rarefà in un’astrattezza intangibile e “folle” (appunto perché completamente avulsa dal reale) che finisce con l’imporre al corpo una sua dittatura, quella di un’ideale di perfezione e purezza nei fatti impraticabile. In tutto questo, mi sembra che il linguaggio si sforzi di riunire le due sponde opposte, di metterle nuovamente in contatto, quasi fosse un elastico teso su di un dirupo largo diversi metri. Ora tenta di attribuire un senso agli atti violenti agiti dal corpo su sé stesso, magari simbolizzando gli arnesi usati per tale scopo; ora si avvicina a pancia, tempie, stomaco, per ascoltare le loro richieste e suppliche. Un estenuante tira e molla, animato dall’ambizione di ricostituire un’unità infranta, che credo sia anche la ragione del ritmo frastagliato, delle incongruenze di tono, e dell’alta tensione sintattica e lessicale dei versi.

 

T.D.D.Il tuo percorso di testi si apre con una epigrafe di tuo pugno: «preme l’angoscia che il progetto di estinguere/ la somiglianza ereditaria stia per fallire» (p. 67). Per tutti i testi, più o meno evidente, è disseminato il tema della lotta contro l’infanzia («Controbattere/ per l’ennesima volta l’infanzia.», p. 75), un rifiuto di aderire a ciò che abbiamo ereditato senza sceglierlo, senza volerlo. È come se sentissi la tua condizione da un lato gravata da un’ereditarietà deterministica (che passa per il corpo) e dall’altro una libertà tutta da inventare, che però passa per forza da un rifiuto della somiglianza. Insomma, serpeggia nei tuoi versi un motivo che mi pare vada oltre la dimensione tua personale, per farsi forse generazionale, forse addirittura di più: politico. Che ne pensi? In che modo ciò che scrivi ti sembra possa essere condiviso da una generazione di coetanei?

B.M. – Nel corso della composizione di Strumentario ho pensato spesso a quanto potesse essere condivisibile, all’interno dei confini immaginari della mia generazione, la condizione che stavo vivendo e che ho provato a rendere in scrittura. Al di là del bisogno personale di fare i conti con alcuni aspetti del mio passato e delle loro conseguenze nel tempo attuale, mi è sembrato che fare del corpo il campo di battaglia per il consolidamento di un’identità autonoma e, quindi, della propria libertà (sia in termini individuali che sociali) fosse un atteggiamento diffuso, che poteva riguardare quelle storie simili di tantɜ mieɜ coetaneɜ che trovavo sui social o che ascoltavo dai racconti altrui (figlie di amici e amiche di famiglia alle prese con disturbi dell’alimentazione, casi di dipendenza e autolesionismo, e altre situazioni analoghe). Non so se mi azzarderei a chiamare “politica” questa tendenza, però mi pare che i segnali di una forma sofferta di protesta ci siano, eccome – sparpagliati, somatizzati, ma innegabili.

 

T.D.D.Per concludere il nostro dialogo, mi piacerebbe chiederti di scegliere un inedito e di raccontarci brevemente perché lo ritieni rappresentativo dei tuoi più recenti percorsi di scrittura e di ricerca. Cosa secondo te funziona? Cosa manca?

B.M. – Condivido di seguito un inedito. Dopo Strumentario, mi è capitato di approfondire altri aspetti e altre sfumature di quella violenza autoinflitta che è al centro della silloge, perlopiù con testi che mantenevano lo stesso carattere incisivo e “gestuale”. I versi che ti propongo, invece, credo suggeriscano l’avvio di una fase ulteriore, in cui gradualmente ci si libera (o, meglio, ci si augura di liberarsi) dal pantano di un’ossessività malata, cieca agli altri e al mondo esterno, e ci si accorge del circostante, quantomeno cercando in questo una possibile via di fuga. Fuga che, beninteso, riguarda tanto certi schemi del pensiero quanto il timbro e la forma del linguaggio. Come spesso accade in Strumentario, però, ci si trattiene ancora dall’affrontare il cuore del problema, si fatica a parlare di ciò che sta alla radice dell’abitudine a boicottare sé stessɜ.

 
 
Penso camminando di fretta lungo la strada a spigoli
e punteruoli affilati a macigni da inghiottire ai denti
conficcati tra i nervi e le vene esposte sulla superficie dei polsi. Replicare
su di sé il male oh se riconoscessi gli indizi alternativi al mea culpa
nei mozziconi sopra le foglie, ai margini sudici
di muschio dell’asfalto, se infine una
volta per tutte accantonassi in un archivio quello che è stato
e non ha alcuna ragione di sopravvivere, né al risveglio
all’alba, né nel cielo risicato fra i condomini, ormai prossimo a sparire.