Alcune domande su Cinema Persefone di Marilena Renda (Arcipelago Itaca, 2025, finalista al Premio Strega Poesia 25) a cura di Giuliana Pala.
Giuliana Pala: In una tua intervista apparsa su Nazione Indiana dici «Mi fido per istinto di un/a poeta che si trasforma, anche molto, da un libro a un altro, che sperimenta, che non ha paura di trasformarsi insomma: la ricerca dell’autenticità, per me, passa soprattutto da lì». Qualche mese fa è uscito il tuo nuovo libro Cinema Persefone per Arcipelago Itaca, nella collana diretta da Renata Morresi, e rispetto al precedente, Fuoco dagli occhi (Aragno, 2022), quel che si vede è proprio quello di cui tu parli: «una poeta che si trasforma». Nell’inchiesta In teoria e in pratica apparsa per l’Almanacco de Lo Spazio Letterario tu dici che per scrivere fai spesso ricerca, usi dei materiali. Ti faccio allora una domanda pratica e introduttiva: come hai lavorato a questo libro? Com’è venuto fuori dal punto di vista del processo? Esiste una ricerca anche prima di Cinema Persefone? E se sì, qual è stata?
Marilena Renda: Sì, ho studiato e lavorato su dei materiali, che è il metodo che seguo di solito. Nel caso di Cinema Persefone, i libri di riferimento sono Il sogno e il mondo infero di James Hillman, Lettere di compleanno di Ted Hughes, che fornisce anche l’epigrafe, e Averno di Louise Glück, senza il quale non mi sarebbe mai venuta l’idea. Non faccio niente di speciale in realtà: di solito quando ho un innesco in testa leggo tutto quello che trovo sull’argomento – in questo caso anche il testo classico di Claudiano, ma anche Deidier e Agamben – e quando penso di aver raccolto abbastanza materiale ci lavoro su, prendo appunti e poi scrivo, abbastanza velocemente. Penso che questa fase di studio sia, per una persona insicura come me, una specie di formazione difensiva per non trovarmi sguarnita di fronte alle parole.
G.P.: Nel tuo libro c’è del mito, eppure è un mito sincopato dalla contemporaneità. Mi fa pensare ad un libro che ho ascoltato quest’estate: L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi, 2023) di Michael Bible. Per tutto il tempo che gli ho dedicato non riuscivo a decidere se stessi ascoltando qualcosa di più simile a W. Faulkner o a Sally Rooney, avevo l’impressione di essere di fronte ad un innesto pazzesco, dove sgamavo tutto ma non sgamavo niente. Nel tuo libro mi sembra accada lo stesso: il mito esiste, si dà, ma si innesta a tanto altro, e porta con sé il nostro tempo. Ti chiedo allora se ti va di dirci qualcosa in più su questa componente mitica? Rifare un mito, ritornare alla cornice e a quell’economia dei personaggi e dell’accaduto è un’operazione di lunga data, ma metterla in campo adesso non verrebbe in mente a tutti. Come funziona? In che modo è stata collaborativa per la scrittura, se lo è stata?
M.R.: Non lo so, sono consapevole del fatto che lavorare sul mito è scivoloso, e non avrei mai pensato di farlo. Credo che a farmi cambiare idea sia stato proprio Averno, che per me è stato un libro importantissimo, e in generale credo che Glück mi abbia indicato delle direzioni. Credo tutto sommato che scrivere usando il mito si possa fare soltanto non facendolo: Cinema Persefone non è un libro sul mito. È un libro dove i personaggi mitici funzionano come proiezioni, e dove rifletto su alcune questioni per me importanti: il quotidiano, la violenza, la natura dell’amore, il rapporto madre-figlia. Per me è un passo importante intanto perché, come dici tu, ho la sensazione di andare avanti rispetto a quello che ho fatto in passato, e poi perché è la prima volta, in un libro, in cui mi permetto di tirare fuori il sentimento della rabbia, che è sicuramente implicito nel mito di Persefone, rapita e poi contesa tra madre e marito senza – apparentemente – avere la possibilità di dire la sua. Da un lato mi è sembrato un segno di rispetto nei confronti del mito mantenere l’opacità e l’indeterminatezza che il racconto che è arrivato fino a noi possiede; dall’altro ho voluto esplicitare che si tratta comunque di una vicenda in cui a una ragazza viene imposta un’oscurità che non ha scelto. Nel suo libro su Persefone, che di base è un manuale di autoaiuto colto, Carol Pearson coglie alcuni collegamenti tra il mito e le narrazioni contemporanee, Twilight per esempio, e nota come il mito di Persefone nello specifico è alla base di molte narrazioni sull’amore in cui la vitalità della ragazza viene cannibalizzata da un uomo, o l’indipendenza personale viene sacrificata sull’altare dell’amore. Proserpina torna anche nel recente libro di Silvia Atzori, Quando tornerai sulla terra, con tutto il portato di mistero di cui questo mito è dotato: vedo che anche in Atzori è inevitabile tirare fuori lo spaesamento e la violenza di cui la storia è intrisa. È una violenza fondante: l’immagine – l’unica – che abbiamo di Proserpina è quell’istantanea di lei rapita dal dio, il resto possiamo solo immaginarlo, ma non ci è permesso dimenticare che tutto ha origine da lì, però possiamo provare a raccontarlo, perché è anche la nostra storia. Al di là di tutto, però, non credo che sia così importante cogliere i riferimenti, e credo anche che chi scrive, al di là delle intenzioni, non debba neanche capire fino in fondo quello che ha fatto. Se noi abbiamo fatto un buon lavoro, il lettore deve entrare in un’atmosfera in cui capisce anche senza capire razionalmente. È chiaro che questo discorso non vale per tutti e per sempre: è valido per me in relazione a questo libro, in cui mi sono immersa consapevole di compiere un mio personale attraversamento del buio.
G.P.: In Cinema Persefone il ritmo, a mio avviso, ha un ruolo fondamentale, ed è usato con sapienza e una certa cura. Fin dal primo testo si capisce che dobbiamo leggere ascoltando. Ogni verso è come entrare in una stanza nuova, una stanza che potrebbe somigliare alla precedente o essere del tutto differente e lasciarci stupiti. Eppure non si tratta solo di maneggiare bene il ritmo. Mi sembra che l’elemento interessante della tua scrittura sia l’esistenza di un rapporto forte tra senso e ritmo, un tipo di relazione difficoltosa da ottenere e non nelle corde di tutti. Robert Frost parlava di «suono del senso» [the sound of sense] e direi che è appropriato. Leggendo i tuoi testi, infatti, mi sono venute in mente due cose: la prima è un disco di Madame (L’Amore) che mi consigliasti di ascoltare qualche anno fa, facendomi notare come si potesse ancora dire sull’argomento usando la giusta ritmica; la seconda è John Clare, un poeta inglese dell’Ottocento, di cui parla Seamus Heaney in Riparazioni della poesia. Lezioni ad Oxford. Di Clare, Heaney dice che la solidità della sua voce dipende «dalla sicurezza del suo istinto nel restare fedele al suo primo “suono del senso”». Che ruolo ha il ritmo in questo libro e nella tua scrittura in generale? Sembra anche a te che il suono vada di pari passo con il senso nella tua raccolta?
M.R.: “Il suono del senso” mi piace molto. Sì, credo che le due cose debbano andare di pari passo, e che il lavoro sul ritmo sia fondamentale. Il ritmo di questo libro mi è venuto naturale, non credo che sia stato veramente pensato. Mi sono accorta dopo, anche parlando con te, che in effetti il lettore poteva percepire un’atmosfera sonora. La scelta del verso breve aiuta a creare un’atmosfera ansiogena, che è poi l’atmosfera del post-pandemia, con quella sensazione strisciante che nulla sarebbe mai tornato come prima.
G.P.: Un’altra cosa che penso quanto ti leggo è che sei stata molto abile a scrivere di cose difficili da scrivere ossia quegli stati d’animo diffusi, noti a tutti, eppure rischiosi nella scrittura. Amore, rabbia, stupore, attesa. Laddove il rischio sembra più alto la scrittura attiva una cura da ‘abat-jour’: luce bassa, cura, scelta accurata. È difficile scrivere di questi argomenti adesso? Come lo si fa?
M.R.: Per me è difficilissimo. Mi sono schermata per anni, di base non sopporto il parlare di me, anche se credo che si parla di sé in ogni caso, e credo ancora nella mediazione del letterario nell’affrontare questioni personali. A un certo punto mi sono accorta però che questa mia vergogna era – è – una forma di difesa, e sono entrata in una fase in cui non voglio più difendermi così tanto, o vergognarmi così tanto – alla fine sono forme di autocensura che bisogna abbandonare, per il proprio bene. Quindi sì, ho deciso alla fine di arrendermi alla poesia, e di lasciare emergere le cose sepolte, anche se non so dove questo mi porterà.
Foto di copertina di Dino Ignani