Cosmic latte di Azzurra D’Agostino

A un solo anno di distanza da Messaggio al presidente (edito da le Lettere nella collana Novecento/Duemila diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni), Azzurra D’Agostino manda alle stampe un nuovo libro di versi, Cosmic latte (ospitato nella collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla e Massimo Gezzi per Marcos y Marcos). Detta così, sembrerebbe che Azzurra sia in una fase di iper-attività poetica; un’impressione che la lettura delle due raccolte e delle note che le accompagnano tende peraltro a smussare, se non a negare. L’esito editoriale ravvicinato non corrisponde infatti a una ravvicinata stesura dei testi. Anzi: come ci informano le Note su alcune poesie poste in coda al volume, Cosmic latte copre un decennio di scrittura ed è il risultato di molte e diverse esperienze di collaborazione (un aspetto su cui torneremo). Quel che è certo è che questo volume rappresenta un’occasione propizia sia per chi già conosce il percorso consolidato dell’autrice sia per chi vuole accostarsi per la prima volta alla sua poesia. Per entrambe le categorie di lettori le pagine corpose (più di centocinquanta) di Cosmic latte sono allettanti poiché in esse si possono ritrovare a un notevole grado di maturità e varietà i caratteri che hanno reso il percorso di D’Agostino uno dei più autentici del panorama poetico attuale.

E forse conviene partire proprio dal titolo, che ha un sapore vagamente pop ma che in realtà nasce da un movente profondo, in quanto si riferisce (cito sempre dalle Note) al “nome del colore medio dell’universo assegnatogli da alcuni astronomi della John Hopkins University, un bianco sporco che ha dato origine anche a un pantone. La scelta di una parola italiana per indicarlo, ‘Latte’ appunto, viene motivata dagli studiosi come un omaggio a Galileo”.

Questo “bianco sporco” che rappresenta “il colore medio dell’universo” è una buona porta d’accesso al nuovo volume di D’Agostino. Leggiamo pertanto il componimento eponimo:

Cosmic Latte
 
Una donna che passa con un cane
attraversa il paesaggio, discende
il viottolo scosceso fino al centro
del suo bianco, si spoglia
di figli amanti, ricordi, si spoglia di tutto
per cercare l’accordo, va verso
il bianco, il bianco, il bianco
colore invisibile dell’universo.

 

È una delle poche poesie oscure della raccolta, la quale è intonata, nella stragrande maggioranza dei testi, a una limpidezza di significati che è uno dei tratti distintivi di tutta la produzione della poetessa. Ma si tratta di un’oscurità che sfida se stessa, che mira al bianco, a un bianco ribattuto (vedi il penultimo verso): quel chiarore invisibile che richiede una completa spoliazione di tutti gli attributi del singolo suggerisce la traiettoria di una ricerca inesauribile e ammaliante. Nel segno di una simile ricerca gli otto versi di questa poesia – a fronte di altre che si distendono fin quasi alla misura del poemetto – sono particolarmente adatti, come si vedrà, a riassumere il senso dell’intero libro.

 

Qualcosa ora in merito alla configurazione delle sezioni: sono quattro, di lunghezza diseguale: folte la prima e l’ultima, più brevi quelle centrali, secondo un disegno numericamente a chiasmo; le prime due presentano nel titolo l’aggettivo dimostrativo “questo” (Questo tempo, Questa lingua è una pianta), a indicare la vicinanza ai temi e ai luoghi cantati; tale vicinanza, in modalità diverse, si mantiene anche nelle due sezioni successive, Ombre e Elegie d’Appennino, esponendo così uno degli aspetti più rilevanti non solo di questo libro ma, di nuovo, del sentimento della poesia che da sempre contraddistingue i versi di D’Agostino.

Un sentimento che induce alla celebrazione dell’esistenza senza peraltro nasconderne le ombre, in doppia accezione: quella che allude a un male operante nel presente, in forma di ingiustizia sociale o in un più intimo sentimento di insidia che proviene dal reale, e nell’accezione, paradossalmente luminosa, per cui le ombre si indentificano con la permanenza degli scomparsi, nell’eredità che il loro passaggio sulla Terra continua a imprimere nei vivi e nei luoghi che abitano.

La scrittura stessa è un gioco rischioso, un incantesimo che risveglia, insieme alla meraviglia, il pericolo: “E io che pensavo che scrivere fosse un giardino / metto un piede nel vuoto e con l’altro cerco un gradino” (Quasi un sonetto delle parole).

Un ruolo di primo piano in Cosmic latte lo giocano tre elementi di schietta tradizione lirica ma che qui al lirismo mescolano una spiccata componente narrativa: la natura, la partecipazione alle vicende umane e il trascorrere del tempo.

A proposito del primo elemento si può subito sottolineare che esso non ha niente, a livello d’ispirazione, di intellettualistico o esornativo. La natura – la flora e la fauna che così spesso campeggiano nei versi – è prima di tutto un’esperienza: la reale partecipazione a un paesaggio, dentro cui il soggetto si percepisce come creatura tra le creature, scandisce una vicenda di riconoscimento che se può suggerire una adesione panica alla vita di un bosco o di una montagna, nega altresì una delibazione estetica di quei luoghi. Allo stesso modo, se i versi dedicati a un albero assegnano una funzione totemica alla sua maestosità, quello stesso albero non subisce lievitazioni simboliche (cioè iperletterarie). È un interlocutore concreto, con cui dialogare e in cui, appunto, riconoscersi, riconoscere gli archetipi del commercio tra uomo e natura in un determinato spazio. Con un tono insieme incantato, fiabesco (ma con la serietà delle fiabe migliori, che sfidano il terrore attraversandolo) e realistico (nella sua deissi puntuale) il mondo naturale che incontriamo in questa raccolta non è un rifugio rassicurante ma semmai avvolgente, dove perdersi ha una dolcezza vicina alla vertigine, uno ‘splendore’ che è ‘terribile’ perché revoca in dubbio le nostre certezze scientiste: qualcosa di ancestrale che contiene, oltre alla meraviglia di sentirsi vivi dentro una mondo pulsante, il terrore di riconoscersi parte di un sommovimento naturale su cui non abbiamo controllo, nemmeno verbale (cfr. Il mago: “La nostra scienza si arresta senza parole / sulla soglia terribile dello splendore”).

 

La medesima necessità di contatto diretto si rivela nella dimensione civile che, anche quando è implicita, anima molti componimenti.

Si prendano due poesie posizionate in sezioni diverse: Saga Operaia (in Questo tempo), quasi in apertura di volume e Bacino di Suviana, che è una delle ultime dell’ultima sezione, Elegie d’Appennino.

In Saga operaia, rifacendosi a un titolo famoso di Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo), D’Agostino riporta una sua personale visita in fabbrica, in una fabbrica delle sue zone, sull’Appennino Tosco-Emiliano, durante un presidio operaio. Sono versi comunitari, con cui si invoca una partecipazione che allaccia la dimensione politica alla consapevolezza di una storia ‘a parte’, lontana dalla politica nazionale e dai grandi centri dove le proteste risuonano con amplificatori più efficaci. Sono anche versi di rabbia e speranza candide, che alla sottile analisi politica che tanto compiace chi la elabora oppongono l’evidenza di una solidarietà umana riscontrata da persona a persona.

Vorrei scrivere una poesia che fosse capace
di dire tante cose
che potesse almeno far sentire meno sole le persone
visto che una poesia
da sola, di certo non cambia il mondo.
Ma niente, da solo, cambia il mondo.
Prendiamo in considerazione questo per un minuto.
Che possiamo chiedere aiuto.
Che possiamo dire no a quello che ci fa male.
Che siamo capaci di fare un presidio
anche sotto al temporale.

 

Il testo di Bacino di Suviana ha una costruzione anomala: non è solo una poesia ma una poesia seguita da una postilla poetica scritta diversi anni dopo: la poesia originaria è stata composta tra il 2016 e il 2019, nel 2024 la postilla, ben più lunga e dolorosa: ciò si spiega perché proprio nel 2024, “un’esplosione sotterranea della centrale idroelettrica ha causato la morte in modo terribile di alcuni operai e un consistente danno ambientale”.

Si intrecciano così in questi versi ricordi autobiografici e l’indignazione per la tragedia di quelle morti: “so il tuo odore il colore nelle ore di ogni ora / del giorno della sera ma mai avrei pensato / che lì sul tuo ciglio nel silenzio del bosco / per un affare tutto umano di alta tecnologia / sarebbe venuta la morte dagli operai / a portarli via che questo fanno gli incidenti / e come spesso accade se ci sono responsabili / però muoiono gli innocenti”.

Anche questa poesia dichiara che è possibile schierarsi apertamente, denunciare in versi e rischiare addirittura l’oratoria: ma è concesso soprattutto se l’oggetto di cui si canta è prossimo, vissuto, frequentato.

 

Ed è così che torniamo ai luoghi e con essi al terzo elemento a cui, come preannunciato, vorrei accennare, ovvero il trascorrere del tempo. Connesso strettamente ai primi due, esso è commisurato a livello individuale per dilagare subito a un livello più smarginato e comprensivo: la bambina che si scopre ragazza e poi donna, non è una fanciullina pascoliana. Ha diritto di parola come lo hanno le sue sorelle maggiori in quella specie di matrioska che è la personalità presente della poetessa. La quale percepisce se stessa non solo come una complessa stratificazione di età, ma anche come un anello di una catena che affonda in tempi remoti e che è influenzato dagli altri anelli che la precedono.

Autobiografia
 
C’è un centro eterno al fondo del tempo
mio nonno trasformato in luogo, il suo sempre
fatto di mare e vele, odore di limoni che si può
respirare. C’è un continuo in quello che scorre
il primo amore sfogliato come si scrostano
i muretti, il posto segreto in cui sedevamo
quella volta che di nascosto mi ha preso la mano.

 

L’autobiografia è quasi sempre una foto di gruppo e i componenti di quel gruppo possono identificarsi con esseri umani o con altre creature senzienti. Il passato, che è una dimensione folta, densa di figure e di memorie baluginanti, si radica – mi si passi il gioco di parole – con radici che sono sia quelle di un’ampia trafila umana, di una tradizione familiare o elettiva, sia quelle, come si è detto, dei luoghi vissuti o visitati.

D’Agostino, si sarà capito, ha un rapporto fortissimo con i suoi luoghi: assume per sé una missione di testimone, se non di custode, della natura che la circonda perché in essa il tempo è scandito da una misura di respiro diversa da quella di località più prestigiose e decantate. L’Appennino Tosco-Emiliano è un territorio sparuto, insidiato dallo spopolamento, lontano dalle città. Si può amarlo senza farne luogo d’elezione, senza cioè avvertire nella permanenza in una zona defilata un tratto di personale elezione? Nelle poesie di D’Agostino trapela un filo di orgoglio, da figlia che non ha tradito, ma è qualcosa di estrinseco e minoritario. Lo sopravanza una naturalezza di fruizione dei propri luoghi che coincide con un attaccamento alle radici così maturo da non necessitare contropartite identitarie. Tanto è vero che con altrettanta naturalezza in questo libro si parla di altri luoghi, di altri appennini, con la stessa vocazione alla conoscenza profonda.

L’adozione del dialetto – nella sezione Questa lingua è una pianta – si inserisce in quest’ottica di testimonianza e di difesa.

Molte delle poesie in dialetto mi sembrano sono bellissime. Esprimono, come spesso le poesie dialettali più riuscite, una saggezza amniotica, cioè un ritrovamento delle proprie sorgenti ctonie, ma al tempo stesso riproducono l’animus di un’intera comunità: grazie all’assunzione di una parlata desueta e circoscritta, la prima persona singolare, anche quando tale resta, si fa prima plurale, assorbe in sé una visione delle cose determinata dal contesto in cui queste stesse cose sono percepite e giudicate secondo un punto di vista popolare.

La poetessa, in dialetto e in lingua, oltreché custode si fa medium tra un mondo che tramonta o è tramontato e un altro che stenta a nascere, e che impaurisce. Forse impaurisce meno se il suo parto è osservato da chi vuole salvare le vestigia di quello perduto, le sue voci, gli antenati e le antenate che lo hanno vissuto, i riti con cui ne è stato scandito il tempo.

 

Ora, non si creda che questa poesia comunitaria sia consolatoria o addirittura trionfalistica nella coscienza del suo ruolo. Al contrario, essa è percorsa dalla consapevolezza acuta, e non di rado rabbrividente, della nostra finitudine. Il punto decisivo, su cui già abbiamo insistito, è l’uso che viene fatto di questa consapevolezza, il discorso a cui dà vita. Un discorso che sembra volersi prolungare, creare un’eco che sia un piccolo, laico, infinito – e infatti il procedimento tipico è la ripetizione variata, la pienezza fonica di micro frasi che procedono ondose. Ma non si dà prolungamento, e salvezza, individuale: il messaggio più forte della poesia di D’Agostino, lo ripetiamo, è forse questo: al di là di ideologie raffinate, o adulterate, di fedi confessionali, di sclerotizzazioni letterarie, l’unica inquieta possibilità di persistere è nella partecipazione alle vicende della propria gente o di quella gente che si può conoscere in presa diretta; non per angusto provincialismo, bensì perché la condizione necessaria a prendere la parola è quella di fare esperienza reale del male e del bene che vivono le persone, scavare nelle loro esistenze, presenti o passate, saggiarne la consistenza quotidiana.

Tutto questo, si sa, sarebbe al massimo buona sociologia, se le poesie di D’Agostino non fossero, come invece sono, sostenute da una vocazione espressiva piena di invenzioni, di sorprese, di sintesi fulminanti e di fruttuose contraddizioni.

 

Infine, un dato apparentemente laterale ma che si lega alla perfezione a quanto detto finora sulla natura relazionale dell’opera di D’Agostino. Già in Messaggi al Presidente si era colpiti dal numero di testi scritti ‘su commissione’ o su impulso di collaborazioni di diversa entità, seguendo consegne molto varie. Lo stesso accade in questo libro, dove numerosi testi nascono da incontri di scrittura collettiva, per volumi tematici, da residenze artistiche, da inviti esterni, da eventi teatrali.

Non a caso, proprio il teatro è un campo artistico che Azzurra coltiva da anni e in cui si sente particolarmente a suo agio: il teatro è un’arte di per sé collaborativa, dove il risultato finale deriva dalla cooperazione di figure diverse che devono tendere a uno stesso fine secondo i propri talenti, e in cui la scrittura è un ingrediente tra i tanti.

Questa operosità condivisa dimostra la grande lontananza che separa la sapiente umiltà, la disponibilità a lasciarsi ispirare insieme, proprie della poesia di D’Agostino, da una concezione della poesia come raptus romantico, o come esperimento individuale, aristocratico o ribellista che sia, buoni soprattutto a esaltare, come ormai siamo soliti notare, il narcisismo del singolo.

Per tornare a noi, e concludere, nei versi di Cosmic latte mi pare che il desiderio di conoscere gli altri mediante la propria osservazione del mondo abbia un’attinenza con l’impulso a cercare un ritorno di sguardo, un’intesa di prospettive che possa aprire a un dialogo in cui davvero si parla e si ascolta.