Alcune domande a Paolo Lagazzi, la cui ultima pubblicazione è La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci (La Nave di Teseo, 2025, prefazione di Emanuele Trevi, con testi di Bernardo e Giuseppe Bertolucci). A cura di Rossella Frollà.
Rossella Frollà: «Ma ti ritroverò luce violetta della primavera?». Il sentimento dell’attesa in questi versi di Attilio Bertolucci vibra in un cuore che, sospeso, separa e abbraccia luce e ombra, gioia e impazienza di esistere, quiete e dolore. C’è qualcosa di questa componente ansiosa che si lega al tuo carattere?
Paolo Lagazzi: Sì, ho una tendenza all’ansia che fra i venti e i trent’anni mi accompagnava senza tregua ma che nel corso della vita sono riuscito a contenere anzitutto grazie allo Zen, alla meditazione, alla tradizione sapienziale e poetica giapponese, ma anche grazie alla poesia di Attilio. In lui, nel lato più profondo dell’anima, c’era un pathos d’infinito che mi ha trasmesso, qualcosa di leggero e irriducibile, una verità che andava oltre tutte le contraddizioni, oltre il dualismo del qui ed ora e di quel che nel tempo fuggiva. L’oscillazione cardiaca che provocava ansia era solo una parte del cammino quotidiano di Bertolucci lungo i sentieri di Casarola. Io ho cercato di guardare il poeta da lontano e da vicino in tutta la sua complessità.
R.F.: Come ti sei avvicinato alla poesia di Bertolucci e cosa di lui ti è rimasto?
P.L.: Ricordo ancora il giorno e la libreria di Parma che ora non c’è più. Entrai e chiesi un buon libro da leggere, il vecchio libraio Belledi mi consigliò Viaggio d’inverno e poi mi disse: – L’autore è là in fondo, puoi parlargli. – Ma io presi il libro e andai via. A casa, non appena cominciai a leggerlo, fui subito folgorato dalla sua bellezza. Mi piaceva tutto di quel libro: la sua anima vibrava dentro la mia. La natura, il linguaggio, la verità della luce e dell’ombra si dilatavano di continuo in modo misterioso, astuto e innocente intrigandomi, regalandomi sussulti, emozioni sottili, rivelazioni profonde.
Quel che mi resta di Attilio è in primo luogo la capacità di esprimere con la parola la fuga, la vertigine, il precipizio del tempo e di superare questa vertigine con un passo lento, naturale e paziente, affrancato dall’assillo di perdere il tempo o di perdersi nella sua morsa. Nell’opera e in lui stesso, nella sua umanità, era percepibile qualcosa come un sentimento fondamentale del senso sacro del mondo, come se il battesimo ricevuto sotto il segno di don Attilio Tramaloni gli avesse lasciato una fiammella sempre viva, una sensibilità di forte sostanza creaturale e un’attrazione per le radici della religione cristiana. Nella sua poesia sono molte le immagini e le emozioni legate in modo esplicito al Cristianesimo: penso ai componimenti Il frate, Presso la Maestà B o Fogli di un diario delle vacanze con quelle due sequenze dedicate alla festa della Madonna della Neve che all’inizio di agosto segna nell’Appennino lo spartiacque dell’estate.
Quel che mi porto ancora dentro è il suo flusso vocale misurato e discreto, in grado di esprimere tutto, sornione come un gatto, ironico come un funambolo, visionario e capace di capriole immaginarie. Più che capire lui, mi sentii capito io. Era il miglior ascoltatore e mi sentii accettato in profondità. Non mi era mai successo fino a quel punto. Ecco, questa autentica accoglienza è stato un buon medicamento per me e lo porto ancora dentro. E porto ancora dentro il bellissimo ritratto in versi che ha fatto di lui Fernanda Romagnoli: «Lui, feudatario mite, / […] lacrime e intatta ilarità d’infanzia.». Ecco, forse anche questa ilarità d’infanzia ci accomuna.
Come racconto nel mio libro La casa del poeta (appena ripubblicato dalla Nave di Teseo), Casarola è stata per me una riserva dolcissima (mai però arcadica, sentimentale) di vita, un’arnia ronzante di incontri e scoperte, di sottili inquietudini che provocavano insieme dolore e crescita. Nel 1972 quando ho incontrato il poeta a Parma nell’appartamento della cognata Molly Giovanardi ero guidato da una necessità di abbandonarmi totalmente a ciò che avrei trovato. Avevo chiesto a Luciano Anceschi di fare la tesi di laurea su Bertolucci e lui accettò. Attilio lo seppe e comprese subito il mio innamoramento per la sua poesia. In essa era come se trovassi una gran parte di me stesso. Ero un giovane timido e trasognato, e forse proprio la mia fragilità lo colpì. Fatto sta che mi concesse subito di avvicinarlo a Casarola.
La casa appenninica era un grande edificio che dominava la collina. Lui appariva sempre compiaciuto di farsi fotografare sulla soglia della propria dimora. L’architrave del contro-portone nella parte vecchia riportava le iniziali dell’avo Pietro Bertolucci, una croce sottile, la sigla AD (anno Domini) e l’anno di costruzione, il 1798. Sono quelli gli anni dello sconvolgimento sociale e politico in Francia e in Europa, e per lui quella data rappresentava il ponte tra la Storia e la realtà piccola ma immensa della famiglia.
R.F.: La capanna indiana, Viaggio d’inverno, La camera da letto sono l’Appennino poetico, il passo del viandante nella sua terra. Ogni poeta ha una «patria poetica», un luogo primigenio reale o immaginario o un luogo interiore. Il tuo?
P.L.: In Viaggio d’inverno, Le farfalle in coppia sono il viaggio religioso del contraddittorio, dove le polarità (la luce e l’ombra, la fedeltà e l’irragionevole, la bellezza e la pena, l’amore e la morte, e io aggiungerei l’innocenza e il senso di colpa) si rincorrono, si scontrano e s’incontrano: qui vibrano tutte le risonanze dell’anima. Il mio luogo è lì, in questa oscillazione, in questo stato borderline che è una forma di estrema fragilità ma anche, forse, un’occasione di apertura all’imprevisto, al diverso, all’altrove. Il mio luogo ideale è nella distanza, nel movimento, nell’incertezza, nel cammino. Naturalmente la vita si presenta spesso nella sua violenza e qualche volta produce ferite sanguinanti ma poi arrivano altre patrie poetiche a salvarmi: lo Zen, la magia, la musica, in particolare l’opera lirica. Mia madre Tina era una soprano e ricordo la prima volta che andai ad ascoltare insieme a lei e a mio fratello gemello, a soli sette anni di età, la Madama Butterfly di Puccini, opera che era nel suo repertorio (ma non era lei a cantarla quella sera). Fui rapito dalle emozioni che si susseguivano velocissime e contrastanti: tenerezza e dolore, spregiudicatezza e amore e lacrime luminose. Da quel giorno l’opera è stata uno dei miei luoghi, lo stesso amato da mia madre. Da mio padre Giorgio ho ereditato la passione per tutte le forme d’immaginazione, di funambolismo e di magia, l’amore per il circo e i paradossi, il gusto di creare fenomeni in apparenza impossibili, l’arte dell’illusionismo. Nel mio libro I volti di Hermes parlo di magie, inganni, sortilegi e rivelazioni cercando di esplorare i molti rapporti fra la creazione letteraria e lo spirito di Hermes, il dio di tutte le forme di leggerezza acrobatica, il maestro di tutte le metamorfosi capaci di nutrire la scrittura, di metterla e rimetterla in cammino sul filo che unisce rischiosamente il qui e l’altrove, il visibile e l’invisibile, la realtà e i sogni, i corpi e i fantasmi.
R.F.: Potremmo dire che la metamorfosi è ovunque, nella parola e in chi la legge?
P.L.: Alcuni libri (non tutti!) sono espressioni di magia e di metamorfosi. Nella poesia di Bertolucci c’è molta magia… Leggerla in una chiave puramente realistica è sbagliatissimo.
R.F.: Quale dei tuoi libri ami di più?
P.L.: Il romanzo che ho scritto con mia moglie Daniela Tomerini, L’isola della colpa. È una storia che si snoda in un convento situato su un’isola greca, abitato soltanto da una suora. Un uomo vi giunge e tenta di trovare le tracce del suo passato. Entrambi provano a ricostruire la propria identità in un cammino umano ambiguo, aspro, avvolgente e misterioso come la colpa. La colpa si deforma, si distorce, si dilata, si ingigantisce e si trasforma nei modi e nelle forme, fino a una specie di salto vorticoso: da una colpa ancora comprensibile e motivata a una incomprensibile e immotivata. La colpa a volte è una voragine senza fondo, un’arsione senza scampo. Ma questo fuoco può dissolversi e il nonsenso annullarsi, o trovare una catarsi, quando tutte le contraddizioni si danno appuntamento nell’“isola” dell’anima. Credo però che, fra i miei libri, L’isola della colpa sia a tutt’oggi quello meno capito.
R.F.: La leggerezza in Bertolucci è un fiore raro, una grazia?
P.L.: Sì, è una grazia, un fiore precariamente in bilico tra il candore, il batticuore e l’estasi. È il gioco di quei «piccoli aeroplani di carta» che continuano a fuggire via, inarrestabili come gli attimi.
R.F.: Quale libro della letteratura universale hai amato di più?
P.L.: L’Odissea. È la pietra miliare, l’archetipo, il fondamento sacro e fantastico di tutta la letteratura dell’Occidente.