Quanto un bambino – Luigi Bressan

 

Tre versi della poesia Vento mostrano meglio di altri il cuore di questo libro di Luigi Bressan: Tutto è già stato a distesa / e sta davanti a sé stesso / nella sua splendida morte. Queste poesie cantano un’infanzia trasognata e spersa nella natura che chiama e viene colta nel suo cangiante mutare lungo le stagioni: quella prevalente è l’autunno, regno di illusione e coda dell’estate, seguito dall’inverno. Gli sprazzi d’estate e di primavera che si vedono nella seconda parte del libro sono insidiati dalle altre stagioni, dove trionfano il paesaggio dei Magredi e il greto del Tagliamento, mentre lo sguardo addita il maggiociondolo e la rara eremofila, le malve, i trifogli, per poi posarsi sugli uccelli, protagonisti della sezione finale: allodole, grifoni, gazze, cince, pettirossi. Ma in questa natura che invita si insinua l’ombra delle perdite che negli anni si susseguono (la sensazione di avere qualcosa alle spalle ritorna più volte), il presagio di qualcosa che manca, “un fremito di foglie”. L’ascolto, paziente, è dunque percorso da tensione, che apre alle visite di figure scaturite da un colore o da uno scatto inavvertito. Le voci tornano in un dialogo continuo con l’altrove. La notte e la sera sono il momento prediletto per le visite, anche se basta il lampo d’un lampione o un tuono per innescarle. Inserti di dialoghi si alternano a costruzioni continue, senza cesure, come groppi che stringono i filari dei versi sporgendo e rilanciando le immagini una dall’altra. Questa tensione inesausta – anche sul piano formale – vale, talvolta, la luce del mattino, che ammanta le cose, dappertutto: Quando si mostrano noi li vediamo / i colori dell'iride le forme audaci / le miriadi dei ventagli d'argento. // Per poco anche noi quella vita.